La telecamera inquadra Izzam Wadi, degli adulti accanto si vedono solo le gambe. È piccolo e impolverato, non deve avere più di cinque anni. Si strofina il naso che cola e gli occhi gonfi mentre segue la preghiera. Di fronte a lui su una barella arancione è poggiato un sacco bianco con il nome scritto a penna. Dentro c’è la madre di Izzam, Lubna al-Najjar. È stata uccisa da un bombardamento israeliano su una delle tendopoli di Khan Younis.
A poca distanza, nella “zona umanitaria” di al-Mawasi che umanitaria non è mai stata, Alaa Abu Helal tiene in braccio un sacco più piccolo. All’interno c’è il figlioletto di un anno e un mese, Mohammed. Alaa scosta il sacco, mostra il volto. In un altro c’è la moglie incinta di sette mesi. «Mia moglie è nata il 20 febbraio, mio figlio è nato il 20 febbraio. Mia moglie è morta il 19 marzo, mio figlio è morto il 19 marzo», dice Alaa. Ad al-Mawasi ieri è stata una mattanza, perché non esistono zone sicure, quelle citate dal premier israeliano Netanyahu martedì sera nel suo comunicato giornaliero: invitava i palestinesi a spostarsi, allontanarsi da Hamas, andare in luoghi sicuri.
Un video mostra un giovane, tra i resti delle tende di al-Mawasi, con la plastica che si è fusa con le stoffe dei vestiti: «È il sangue di mio fratello. Qui c’è la moglie. Questi sono i loro tre figli. Mio fratello non appartiene a nessun gruppo politico. Ripara computer, ha un negozio». Ne parla al presente.
Sono solo alcune delle testimonianze che arrivano in queste ore da Gaza, filmate da giornalisti e cittadini, mentre dal cemento emergono persone senza vita, tantissimi bambini. Sono un terzo delle vittime dal 18 marzo, da quando Israele ha rotto la tregua e ripreso l’offensiva: 183 bambini su 436 morti a ieri pomeriggio (49.500 accertati dal 7 ottobre 2023), un centinaio le donne.

La conta è proseguita nelle ore successive: 14 uccisi nel quartiere di al-Sultan in una casa usata per celebrare funerali; un bambino di due anni e mezzo, Omar Abu Sharqiyya, ucciso da un drone ad Asraa City; cinque uccisi nel raid contro un’auto a Rafah; tre in un appartamento ad Al-Rimal; tre nella casa della famiglia Kilani a Beit Lahiya. Ramy Abdu, fondatore dell’ong Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, ieri ha saputo al telefono, dall’Europa, che la sua famiglia è stata cancellata: la sorella Nesreen, il cognato Mohammed e i loro tre figli, Ubaida, Omar e Layan.
Nel pomeriggio di ieri, l’esercito israeliano ha annunciato un’estensione dell’offensiva via cielo con un’operazione di terra «mirata» che il ministro della difesa Israel Katz ha definito «l’ultimo avviso» per Hamas perché accetti la proposta dell’inviato Usa Steve Witkoff (estensione della prima fase della tregua terminata un mese fa, senza passare alla seconda). Il movimento islamico insiste per riavviare i negoziati e procedere con la seconda fase: liberazione dei 59 ostaggi israeliani, cessazione permanente delle ostilità e ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza.
Sul terreno accade l’opposto: l’esercito sta riassumendo il controllo del corridoio Netzarim, che divide in due la Striscia, e riavviando l’ampliamento della zona cuscinetto tra il nord e il sud dell’enclave (nei mesi scorsi lì Tel Aviv aveva costruito una vera e propria base militare).
Dal corridoio Israele si era ritirato il mese scorso, permettendo a centinaia di migliaia di palestinesi sfollati di rientrare nelle proprie case o i loro scheletri a Gaza nord: una marcia impressionante di esseri umani, che ha riunito famiglie divise da mesi e che, seppur nel dolore, è stata vissuta come il primo «ritorno», diritto finora sempre negato dall’occupazione. La rinnovata invasione farà, come prima, da base di lancio per gli attacchi di terra, che si combinano ai nuovi ordini di evacuazione dell’esercito israeliano: avverte la popolazione del nord (Beit Hanoun, Khirbet Khuza’a, Abasan al-Kabira e Abasan al-Jadida) di sfollare per l’ennesima volta verso sud.
I raid israeliani hanno preso di mira anche le Nazioni unite: colpita una delle guest house per i funzionari internazionali a Deir al-Balah, due uccisi e quattro feriti, stranieri della missione Unops. Tel Aviv nega responsabilità, mentre il ministero degli esteri torna ad attaccare con veemenza il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, accusandolo di «bancarotta morale» per aver condannato i massacri di martedì.
Nelle stesse ore montava la protesta a Tel Aviv e Gerusalemme contro il governo: decine di migliaia di israeliani si sono ritrovati di fronte alla residenza di Netanyahu nella città santa e nelle piazze della capitale contro il licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, e i tentativi del premier di assumere il controllo di ogni istituzione del paese. A Gerusalemme la manifestazione è stata dispersa con violenza dalla polizia, quattro arresti.
Netanyahu va avanti per la sua strada, rafforzato dal ritorno nel governo di Itamar Ben-Gvir: la maggioranza ora non è più in bilico, in vista del fondamentale voto sul bilancio della prossima settimana che avrebbe potuto far saltare l’esecutivo.
Ieri il premier, da una base militare in Cisgiordania, ha annunciato un allargamento delle operazioni militari nel territorio occupato, dove ieri a Nablus altre decine di famiglie sono state cacciate dalle proprie case dai fucili puntati dell’esercito. Decine di ordini di demolizione sono stati emessi per abitazioni a Jenin e Nablus.
CHIARA CRUCIATI
foto: screenshot tv