Container in fiamme, colonne di fumo denso, vigili del fuoco che freneticamente cercano di avere ragione di un incendio violento.
Le immagini del secondo, questo mese, devastante attacco aereo israeliano al porto siriano di Latakia, compiuto nella notte tra lunedì e martedì, hanno fatto il giro del mondo, diffuse dai media ufficiali di Damasco. Non hanno però innescato alcuna reazione internazionale malgrado siano rimasti coinvolti, stando al resoconto delle fonti ufficiali siriane, altri edifici, incluso, pare, un ospedale nell’area circostante a quella di stoccaggio dei container. Non erano andate in modo diverso le cose lo scorso 7 dicembre quando il porto di Latakia fu colpito per la prima volta dall’aviazione israeliana con esiti altrettanto disastrosi.
Da parte di Israele, come quasi sempre in questi casi, non ci sono stati commenti. Da un paio d’anni però esponenti governativi e militari in determinate occasioni confermano che lo Stato ebraico ha condotto centinaia di raid aerei in Siria, descritti come attacchi preventivi contro basi, depositi di armi, convogli militari e postazioni dell’Iran e del movimento sciita libanese Hezbollah, alleati di Damasco.
Israele fa ciò che vuole, la sua superiorità strategica e militare non è contrastabile. La Siria, al di là dei comunicati rituali di esaltazione dell’intervento delle sue difese antiaeree – che sino a oggi non ha mai prodotto risultati – non può, e forse non vuole, reagire con più forza per timore di offrire a Tel Aviv il motivo per sferrare attacchi persino più devastanti che, comunque, non verrebbero sanzionati, condannati o criticati neanche dalle Nazioni Unite. La versione israeliana di incursioni compiute per «autodifesa», a contrasto della presenza in Siria del nemico iraniano, è accettata di fatto senza verifica da Stati uniti ed Europa, anche quando questi attacchi, ma non quello di due giorni fa, provocano vittime.
Il via libera a Israele non arriva solo da Occidente. Il più importante giunge proprio da Mosca, ossia da un alleato fondamentale di Damasco. Il presidente Putin ha assicurato al premier israeliano Naftali Bennett che le forze armate russe in Siria non interverranno per fermare le incursioni aeree dello Stato ebraico. A Hmeimim, a meno di venti chilometri da Latakia, c’è una enorme base aerea russa, protetta da sistemi radar e di difesa antiaerea tra i più avanzati al mondo. Sistemi rimasti inattivi l’altra notte, così come era avvenuto il 7 dicembre e in occasioni precedenti. Mosca inoltre non permette alla contraerea siriana di impiegare gli avanzati missili antiaerei S-300 per contrastare l’aviazione israeliana.
È arduo non trovare un legame tra l’ultimo attacco al porto di Latakia e la ripresa lunedì dei negoziati a Vienna per il rilancio dell’accordo internazionale, il Jcpoa, sul programma nucleare di Tehran. Israele ha dimostrato ancora una volta le ampie capacità della sua aviazione militare che da tempo si addestra a un attacco contro le centrali atomiche iraniane forse nei prossimi mesi.
Per i piani israeliani il successo, assai improbabile, delle trattative in Austria avrà rilevanza solo fino a un certo punto. Ieri se da un lato il premier Bennett ha affermato che Israele non si opporrà automaticamente a qualsiasi accordo forgiato dalle potenze mondiali con l’Iran, dall’altro ha espresso forti dubbi che la possibile intesa soddisfi le condizioni poste del suo paese. Ben più esplicito è stato il ministro degli esteri Yair Lapid che davanti alla commissione esteri e difesa della Knesset, ha ribadito che Israele è pronto a colpire da solo l’Iran, senza l’appoggio diretto o la benedizione degli americani. «Ci difendiamo da soli – ha detto Lapid – abbiamo presentato ai nostri alleati solide informazioni secondo cui l’Iran sta ingannando il mondo».
Israele, che secondo fonti internazionali è l’unico paese del Medio Oriente che possiede segretamente bombe atomiche, sin dall’inizio si è opposto all’accordo sul nucleare firmato nel luglio 2015 a Vienna tra l’Iran, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Germania e Regno Unito. L’accordo è saltato quando gli Stati uniti ne sono usciti per decisione dell’ex presidente Donald Trump.
Un passo che ha prodotto anni di tensione e di minaccia di guerra e anche una nuova leadership iraniana, più oltranzista sul nucleare rispetto quella dell’ex presidente Hassan Rohani. Tehran che nega di volersi dotare di ordigni atomici come sostiene Tel Aviv, ripete che non ci sarà il rilancio del Jcpoa se non saranno revocate tutte le sanzioni statunitensi in un processo verificabile che garantisca la capacità senza ostacoli di Teheran di esportare il proprio petrolio e di godere di tutti i benefici economici previsti dall’accordo del 2015.
MICHELE GIORGIO
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