Di ieri è la notizia della morte di Armando Cossutta. Partigiano e comandante delle Brigate Garibaldi, deputato e senatore comunista per vent’anni, alla liquidazione dell’esperienza politica dei comunisti in Italia, nel 1991, oppose la volontà, insieme a Sergio Garavini, Rino Serri, Ersilia Salvato, Lucio Libertini e Bianca Bracci Torsi, di non mettere la parola fine alla presenza organizzata dei comunisti in questo nostro Paese.
Ne nacque, proprio nell’atto di scioglimento del PCI, mentre nasceva il Partito Democratico della Sinistra (PDS), il Movimento per la Rifondazione Comunista. Senza soluzione di continuità, la storia e l’eredità del comunismo italiano avevano nuovamente un partito su cui camminare.
Fu un’operazione delle più belle e coraggiose mai tentate in Italia dall’inizio del secolo scorso: il secolo lungo e breve allo stesso tempo. Il secolo delle unità a sinistra e delle grandi divisioni: tra socialisti e comunisti prima, tra socialisti e socialdemocratici poi.
Tutto questo avveniva con un travaglio interiore singolo e collettivo che persino la cinematografia ha reso molto bene con film come “Mario, Maria e Mario”, dove un giovane Giulio Scarpati affronta il dramma che si consuma all’interno della coppia che forma con una ragazza che, a differenza di lui, decide di non aderire al nuovo partito di cui sarà segretario Achille Occhetto.
Era una politica pulita e rispettosa anche dell’avversario più tenace e risoluto quella di allora: Cossutta e Occhetto erano capaci di darsi battaglia all’interno dei congressi locali del PCI morente e di sedersi allo stesso tavolo del bar a bere e discutere pochi minuti dopo.
C’è una bellissima fotografia che immortala il comandante partigiano insieme ad Occhetto e Garavani seduti su un divano in una pausa dei lavori congressuali. Qualcosa della civiltà sociale portata avanti dal grande “paese nel paese” aveva messo le radici nelle menti e nei cuori di centinaia di migliaia di donne e uomini che avevano respirato per decenni il profumo della solidarietà e del mutuo soccorso, il contrario delle lotte di partito che sarebbero poi venute avanti con la caduta dei governi del Pentapartito e l’apertura della crisi politica che travolse l’intera classe dirigente democristiana e socialista.
Armando Cossutta ha insegnato, indirettamente, anche a me alcuni valori che mi porto, a volte anche stancamente, dietro e di cui non posso fare a meno: mi ha insegnato, certamente insieme a compagni cui riconosco una maggiore incidenza culturale sulla mia persona come Lucio Libertini e Bianca Bracci Torsi, che le comuniste e i comunisti non possono essere pura testimonianza di un mondo alternativo a quello esistente. Mi ha insegnato che l’autonomia dei comunisti è priva di senso se non c’è una ricerca dell’unità.
Ma l’unità che da molte parti oggi viene ricercata e, spesso, ridotta allo stato di un mero feticcio idealistico o utilitaristico, non può essere un appello che si sottoscrive accettando la buona fede di chi lo firma: quell’unità è prima di tutto un processo politico e, quindi, è un lavoro lento, lungo che si ottiene da precise identità che si mettono a confronto e non nasce con la sola bontà degli intenti o con la voglia di emergere attraverso operazioni di palazzo.
Armando Cossutta non era, non è mai stato il mio punto di riferimento per così dire “culturale” quando aderii a Rifondazione Comunista nell’ormai lontano 1994. Ho sempre cercato delle ispirazioni in figure dal sapore più antico: ovviamente partendo da Marx ed Engels, ma trovando poi un approdo quasi naturale, di totale condivisione, in Rosa Luxemburg e nella sua proposta di un partito di massa piuttosto che di avanguardie di rivoluzionari di professione.
Ne è derivata una concezione libertaria del comunismo che probabilmente faceva a pugni con l’impostazione cossuttiana.
Ma non sono riuscito mai a vedere chi era lontano da questa mia visione del comunismo e della strategia politica per l’avanzamento del movimento anticapitalista, come un nemico da osteggiare: perfino gli stalinisti più cocciuti o i trotzkisti più indomiti sono sempre stati per me compagni con cui aprire discussioni infinite e inconcludenti, ma tuttavia credo che proprio quella fu la moderna scuola delle Frattocchie che non abbiamo mai avuto e che ci ha permesso di crescere. Nelle differenze.
Armando Cossutta ci lascia una grande eredità: lui è l’ultimo dei grandi vecchi del Partito Comunista Italiano che ci lascia. Ma il progetto della “rifondazione comunista” è un progetto vivo, a discapito e dispetto di tutte e tutti coloro che lo vorrebbero morto e sepolto. Va messo al servizio della costruzione di una nuova sinistra di alternativa dove i comunisti siano da pungolo continuo e da stimolo per una nuova egemonia culturale di critica radicale e senza appello al capitalismo, per arginare i moderatismi, per creare una rinnovata forza rivoluzionaria anche in Italia.
Una forza dove non c’è spazio per giochetti di bottega e per malcelati rampantismi. Qui la dedizione di una vita alla causa del comunismo è la necessaria forza propulsiva che ha spinto ieri Armando Cossutta a vivere la sua vita senza tradire i suoi valori, rinnovandoli con coraggio anche quando tutti, attorno, come un Galileo circondato dai sapienti dell’epoca, lo additavano solo come il “compagno di Mosca”, come l’uomo “dai capelli bianchi”, deridendolo e pensando che Rifondazione Comunista non ce l’avrebbe mai fatta a costruire una parte della storia della sinistra italiana del dopoguerra. Ce l’ha fatta e ce la può ancora fare. Anche grazie a vite come quella del partigiano comunista Armando Cossutta.
Addio comandante.
MARCO SFERINI
16 dicembre 2015
foto tratta da Pixabay