Introspezione socratica del premoderno Montaigne

Si prova una immediata simpatia per Montaigne nell’attimo in cui, e si fa piuttosto presto ad arrivarvi, ci si rende conto che il suo primo scetticismo (tutt’altro che nichilista)...

Si prova una immediata simpatia per Montaigne nell’attimo in cui, e si fa piuttosto presto ad arrivarvi, ci si rende conto che il suo primo scetticismo (tutt’altro che nichilista) intende decostruire una vasta gamma della metafisica del passato e del suo tempo. Arcinemico del costrutto ideologico dogmatico, il giovane futuro filosofo francese è aiutato nella sua progressione verso l’apertura alla critica e all’autocritica da una educazione irrituale, permessagli da un padre che non gli impone nulla.

Non solo i tempi forgiano le coscienze, con tutti quei rapporti di forza esistenti che inducono quello che Marx chiama l'”essere sociale” a vincolare, per l’appunto, l’essere interiore, empatico e in divenire continuo che ci abita e che noi siamo (inconsciamente). Anche i genitori possono avere un ruolo fondamentale nel fomentare, nel reprimere, nell’illudere come nel disilludere il giovane che mostra i segni inconfondibili della voglia di apprendere.

L’insperabile non è l’impossibile, ma può somigliare alla scettica capacità di trarsi fuori dall’impaccio del dovere a tutti i costi assegnare un senso all’esistenza. L’affanno è tachicardico, accelera i polsi che tremano di fronte all’Universo i cui tratti sono quelli dell’indefinibile schiettezza dell’infinito impensabile, dello spazio vuoto che è solcato da piccole pienezze di stelle, pianeti, comete, trasformazioni continue della materia che includono l’essere umano, vivente, senziente, condannato all’autocoscienza.

Montaigne pare un po’ un Piccolo principe che sta sul suo pianeta e coltiva la sua rosa e che si fa quintessenza della curiosità, della saggezza, dello stimolo perenne (entro la determinazione dei tempi di vita, si intende…) a fare della filosofia in quello che egli stesso riprende come vero “filosofare“. Ossia il pensarsi, il dipingere sé medesimo sulla tela del ritratto di un mondo che lo rispecchia, lo compenetra, lo ottenebra, lo percuote e lo costringe a stare entro i confini asfittici dell’irrazionalità dettata dall’insensatezza dell’essere.

Un essere, un ente dell’esistente e una esistenza dell’ente, che è imprendibile: lo si osserva, gli si da uno nome nei miliardi delle sue mutazioni, ma non è afferrabile nella sua interità: se per questa intendiamo la ragione dell’essere. Il “Perché” per antonomasia. C’è il riconoscere, qui ed ora, che noi umani siamo sempre un passo oltre noi stessi e che ci soffermiamo purtroppo sempre troppo poco presso di noi.

La presenza nei nostri confronti (essere presenti a noi stessi, ergo…) è una assenza manifesta, perché ne siamo consapevoli: le idee, la fantasia, i desideri, la voglia di espanderci ben al di là della ristrettezza fisica, ma soprattutto intellettiva, che ci riguarda, sono tutti caratteri atavici, intradinamici. Il tentativo di recuperarci come metro di paragone con il resto da noi è nei “Saggi” un discrimine positivo che ritorna spesso e volentieri. In particolare quando Montaigne, a partire dalla loro prefazione, afferma: «Sono io stesso la materia del mio libro».

Si badi bene, qui non c’è nessun narcisismo di sorta. C’è, anzi, qualcosa di esattamente uguale ma contrario: un’ansia di conoscenza del proprio essere entro la comprensione dell’umano, del naturale, oltrepassando i confini posti dalle politiche e dalle guerre e anche quelli messi dalla natura. Quando, ancora vivente il dodicenne re di Francia Carlo IX, arrivano dalle lontane americhe gli indigeni, considerati alla stregua di veri e propri selvaggi, l’interesse di Montaigne per quegli esseri umani sconosciuti si esprime in pagine di descrizione dei dialoghi avuti con loro.

Questi uomini e queste donne girano per le vie di Rouen, osservano le città che vengono definite “civilizzate“, rispetto a quel Nuovo Mondo tutto da cristianizzare e occupare politicamente e militarmente, e parlando col filosofo esprimono le loro perplessità: come sia, ad esempio, possibile che per le strade stiano a pochi passi persone pasciute, vestite molto bene, eleganti, oggettivamente floride, mentre ai bordi si trovino altre persone, magrissime, smunte, pallide, emaciate, segno altrettanto evidente della infima povertà cui sono costrette.

Montaigne annota, accumula appunti e scrive nella sua opera più celebre che «…ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa». Si confronta con loro, si mette in discussione, ponendo la stessa civiltà occidentale sul banco degli imputati.

La condizione umana da lui studiata e approfondita mediante l’autoanalisi che fa di sé, è un principio di moderna antropologia e di sociologia che prova (come quella modernamente definita “applicata“) anzitutto a rispondere alle domande classiche della filosofia del tempo passato, ma che, differentemente da altre scuole di pensiero, non vuole essere altro se non l’opinione manifesta del suo scrittore e diffusore che propone, prima di tutto, ai suoi simili di accettare serenamente i limiti dell’esistenza.

Senza questa conditio sine qua non, non può esservi una tranquilla analisi dell’essere umano in quanto tale e del contesto in cui la sua vita si sviluppa. Montaigne tenta una equidistanza sia dall’esaltazione ecclesiastica dell’uomo interprete del volere divino, che tenderebbe ad escludere, quindi, l’accettazione della condizione di limitatezza, di mediocrità, di finitudine, di costrizione (o di percezione della medesima, del pensarsi, in quanto limitato nella comprensione dell’esistente, incapace di dare un “senso” alla vita), sia dall’estremo razionalismo che risulta fine a sé stesso.

Quel che interessa a Montaigne non è il costrutto metafisico edificato intorno all’essere umano, prigioniero quindi di tutta una serie di deformazioni della sua personalità imposte dalle convenzioni tanto sociali quanto dal precettualismo religioso e clericale. Ciò che a lui preme è l’indagine specifica e meticolosa sull’essere in quanto tale, su una umanità che sembra indistinguibile da sé stessa se presa nella complessità della massa e che, invece, ha tante particolarità da mostrare per essere sempre meglio conosciuta.

L’esempio precedentemente esposto riguardante i dialoghi con gli indigeni sudamericani è, da questo punto di vista emblematico e chiarificante nel merito. Ecco che, da questo relazionarsi con gli altri, Montaigne acquisisce non solo una metodologia che scopre empiricamente (o per meglio dire, antropologicamente), ma intuisce e poi si convince che vera cifra del vivere non è la costanza, la normalità, l’uguaglianza a tutti i costi, quella che, per così dire, annichilisce, annienta le specificità di ciascuno, ma è esattamente l’opposto.

L’essere umano, e quindi anche il Montaigne uomo e non solo filosofo o politico, una quintessenza della contraddizione di uno stadio complicato della materia, dell’essere, dell’esistere. Questa sua finitudine non può trovare una risoluzione definitiva, un inveramento nelle circonvoluzioni della metafisica: né di quella delle vecchie scuole filosofiche né di quella coeva al nostro filosofo francese. L’uomo non deve aspirare ad elevarsi ad altezze che non gli si confanno. Deve essere quello che è e, dunque, accettarsi in quanto tale.

La condizione di finitudine in cui ci troviamo, ad iniziare dal nostro corpo stesso, dall’essere entro i limiti propriamente fisici, può indurci a considerare in qualche modo consolatorio una sorta di atteggiamento rivolto ad un “pentimento” che, tuttavia, per Montaigne non è mai buono. Per lui non c’è nulla di cui ci si debba pentire per essere umani, per essere oltremodo consapevoli di tutti (o quasi) i nostri limiti. C’è una sorta di rivoluzione laica in questa torsione del pentimento dall’impronta cattolica alla confessione che, in fin dei conti, si tratta di un dispiacere per non poter arrivare alla soluzione di tanti quesiti esistenziali.

Siccome Montaigne afferma che l’accettazione del nostro essere è la premessa per una attitudine serena nei confronti della conoscenza esteriore, di ciò che ci circonda, ad iniziare dal rapporto che abbiamo con la natura, ne consegue che fare qualcosa meglio di come lo potrebbe fare un uomo comune è francamente difficile quand’anche impensabile. Ci si può arrovellare su mille temi, provare a mettere in fila altrettante ipotesi e, a volte, riuscire a trovare un punto molto vicino a quella che riteniamo essere la verità. Ma non si può vivere seguendo la rassegnazione: sentimento opposto all’accettazione dei limiti.

Chi si rassegna non è vero che accetta la propria condizione tutta umana. Chi si rassegna la subisce. Chi la accetta, la padroneggia entro i limiti che già conosce. Tra questi, certamente la morte è quello più umano o, forse, più connesso alla vita in quanto tale. Per l’essere che noi siamo, la fine dell’esistenza è un problema che ci colloca nel concepimento dell’inesistenza. Quindi noi sappiamo che, quando il nostro cuore cesserà di battere, noi, almeno per come ci siamo conosciuti in questa occasione (unica?) che è la vita, non saremo più tali.

Non parleremo più, non scriveremo, non saremo più nulla di quello che siamo stati per, se ci è andata bene in quanto a lunghezza temporale, un centinaio di anni. La morte, pertanto, è vissuta sempre soltanto come una fine dall’umanità intera ed la necessità di riferirci, più o meno costantemente, a quel limite estremo, fa dell’inesistenza un elemento dirimente per la vita stessa. «Tu non muori perché sei malato. Muori perché sei vivo». Diversamente da come la intendiamo atavicamente, Montaigne la sintetizza nel concetto che ne fa un elemento costitutivo della vita medesima.

Davvero quest’uomo che è stato un pensatore completamente calato nel suo tempo in tutto e per tutto, in particolare come politico, come consigliere al Parlamento di Bordeaux e poi come sindaco della città girondina, è un premoderno. Non soltanto il tratto profondamente laico del suo pensiero conforta questa deduzione, tutt’altro che relegabile in qualche soggettiva simpatia; ma è supportata inoltre dalla capacità di critica che Montaigne pone come levatrice della conoscenza, per l’appunto molto simile ad una maieutica socratica.

Senza troppe pretese, accettando i limiti umani, ma non per questo rassegnandosi ad una esistenza piatta, limitata ad un orizzonte esclusivamente visibile nel medio, piccolo termine. Montaigne è uno sperimentatore continuo del confronto tra coscienza e conoscenza. L’una senza l’altra sono esercizi privi di vigore, meccanicismi che non anelano ad elevare lo spirito che non ha confini. I limiti dell’essere umano non risiedono nella sua mente, ma nel suo corpo, nella tridimensionalità della materia.

Ma la psiche, lo spirito, la mente, l’intelletto, oltrepassano la materialità che ingabbia il sogno, la fantasia, la capacità di uscire dal conforme, dal normale, dalla prassi e dal consueto. Montaigne ci insegna i prodromi di un umanesimo che, secoli dopo, si realizzerà in forme diverse tanto negli esperimenti rivoluzionari settecenteschi, quanto in quelli dei secoli successivi. E, proprio vista l’altalena di successi ed insuccessi per la specie umana, vale la pena tenere i “Saggi” di Montaigne sempre vicino a noi.

La loro lettura ripetuta può riportarci tanto con i piedi per terra quanto con la mente fin dentro l’immensità del mistero stellato sopra di noi.

MARCO SFERINI

16 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Il portico delle idee

altri articoli