La guerra non ci abbandona mai. Un po’ da sempre, perché la Storia dell’umanità è storia di lotte di classi fin da quando si è formata una società propriamente detta e, quindi, è conflitto a prescindere. Ma, pareva, almeno, che dopo la Seconda guerra mondiale in Europa e in quelle parti del pianeta che avevano dominato il mondo, partendo proprio dalle avventure coloniali fiorite al tramonto del Quattrocento, si fosse stabilito uno status quo determinato dalla volontà di porre fine alle guerre su vasta scala, allo scatenamento di una bellicosità imperialista.
I tentativi di una nazione o di un gruppo di alleati di sovvertire gli equilibri degli altri Stati venivano così inscritti nella violazione sistematica di quel diritto internazionale che si andava via via scrivendo e che, dalla Società delle Nazioni alla nascita dell’ONU, passando per la formulazione a Norimberga (e nei processi successivi) della nozione di “crimini di guerra contro l’umanità“, metteva le radici per l’edificazione di un patto universalmente riconosciuto nel desistere da affronti imperialisti, da prove di muscolarità politico-economico-finanziaria tramite l’ostilità delle armi.
Per lungo tempo abbiamo pensato che una speranza in questo senso si stesse davvero concretizzando: quando il generale De Gaulle, che non era certo un pericoloso comunista, si inventò addirittura i “Jeux sans frontières” come simbolo popolare di una riconversione europea verso l’unità dei popoli che si ritrovavano sotto le bandiere di spiritosi giochi sportivi che inducevano a considerare i propri vicini come tali e non come nemici preventivi, la percezione un po’ comune divenne quella della svolta verso la distensione. Una parola che somigliò, per qualche istante, ad un sinonimo di “pace“.
Non lo fu mai durevolmente, ma di sicuro si trattò del punto più alto di una storia dell’Europa in cui, pur nella illogicità morale della Guerra Fredda, ci si fece afferenti ad una voglia di fine vera delle guerre: per una esistenza che andava ricostruita sgomberando le macerie materiali, politiche e antisociali di una prima metà novecentesca fatta soltanto di grandi stermini di massa. Il manifesto di Ventotene e altri presupposti intellettuali sulla possibilità di una federalizzazione dei popoli, entro le specificità comunque nazionali dei singoli Stati, consolidavano questo sentore.
In verità, avremmo dovuto avere sempre ben presente che la fondazione della NATO nel 1949, cioè proprio quando si sanciva la divisione della Germania in due Stati e quella di Berlino in due parti separate da un ignobile muro che entrava nella vita delle persone, ne trapassava le speranze con tutto il suo filo spinato, aveva un carattere tutt’altro che difensivo, così come dichiarato solennemente nel suo statuto. L’occupazione militare nordatlantica, in una Europa praticamente disarmata, era la pedina del risiko da mettere davanti a quella dell’Unione Sovietica: la plasticità evidente della contrapposizioni dei blocchi.
Quando, poi, nel biennio 1989-1991, con la caduta del socialismo reale e l’implosione dell’Est pseudo-comunistico, il Patto di Varsavia è venuto meno, gli scopi dell’esistenza dell’Alleanza Atlantica si sono manifestati in tutta la loro lapalissiana evidenza. Le promesse fatte a Michail Sergeevič Gorbačëv di non avanzare di un centimetro verso la Comunità degli Stati Indipendenti (quell’ibridissimo tentativo di mantenere una sorta di unità tra i paesi membri dell’ex-URSS) con le adesioni di nuovi alleati in seno alla NATO e verso quell’Est Europa che era un appetitoso terreno di conquista liberista globalizzatrice, furono puntualmente tradite.
Le liberaldemocrazie non avevano solamente fallito nel tentativo di dare al mondo un equilibrio stabile di pace per lungo tempo, visto che, a parte in Europa, le guerre si erano succedute dal Vietnam alla Corea, dal Medio Oriente all’America meridionale (la questione delle Falkland tanto per citare quella più mediaticamente diffusa in allora); avevano anche mostrato tutta la loro incapacità nel farsi amiche del vecchio gigante russo, nel portare a Mosca quei princìpi e quei valori che si dicevano indissolubilmente legati all’economia di mercato. Capitalismo e libertà civili e sociali sarebbero andati a braccetto a lungo. Soprattutto dove erano mancati per molto tempo.
Invece non è stato così. Ha prevalso non uno spirito nuovo del mondo, volto alla fratellanza universale, bensì la competizione multipolare che ha preso il posto del bipolarismo pre-caduta del Muro di Berlino. Ed hanno, quindi prevalso i nuovi imperialismi e i nuovi conflitti che, dalle guerre balcaniche a quelle del Golfo, passando per la fase di alimentazione del terrorismo qaedista, sono arrivati fino ad una modernità del nuovo millennio in cui la guerra è ritornata non soltanto nel cuore dell’Europa, ma pure al centro delle politiche dell’Unione. L’economia di guerra è il completamento di un ciclo di espansionismo militare, politico e soprattutto economico.
Un ciclo in cui all’espansione della NATO verso Est, Mosca risponde con l’espansione di sé stessa verso Ovest. L’Ucraina è quella parte di Russia storica che Putin rivendica in quanto “nazione inesistente” e che, seppure esista come Stato sovrano, ha fatto molto poco per dimostrare di essere quella democrazia che interebbe mostrare al mondo: il mancato rispetto delle minoranze russofone entro i suoi confini precedenti la guerra; la messa al bando dei partiti di sinistra e soprattutto di quelli comunisti; il controllo dell’informazione ben prima dell’invasione russa e, naturalmente, la ultradecennale guerra in Donbass.
Resta da capire se è la NATO, tramite il governo di Kiev, ad aver offerto una opportunità a sé stessa, di ulteriore espansione e di scatenamento di una guerra ibrida e per procura nei confronti della Russia, mediante l’accoglimento di domande di ingresso di paesi sempre più prossimi ai vecchi confini sovietici (ed anzi, con l’Ucraina addirittura entro il precedente territorio dell’URSS) e quindi la provocazione nei confronti di Mosca, oppure se è la Russia che ha preso a pretesto tutto ciò per avanzare verso i confini dell’Unione Europea e ridimensionare l’imperialismo occidentale.
La verità – si dice – sta nel mezzo. E nel mezzo c’è il popolo ucraino, c’è quello russo, ci sono i soldati che muiono per una guerra in cui si combatte non per la democrazia e la libertà, ma per l’affermazione di un potere rispetto ad un altro. Un potere non soltato di uno Stato, ma di un aggregato di mondo contro un altro aggregato: ancora una volta Ovest contro Est e viceversa. Con la differenza, tutt’altro che trascurabile, che il gigante cinese è dietro l’angolo di un’Asia tormentata da altri venti di guerra (Taiwan e Corea del Nord da un lato, Afghanistan e Iran versus occidente dall’altro).
I generali ucraini critici nei confronti della conduzione della guerra da parte di Volodymyr Zelens’kyj paventano un cedimento del fronte di qui a breve termine. I russi sovrastano la potenza di fuoco dell’esercito di Kiev (armato di tutto punto fino ad oggi con centinaia e centinaia di miliardi di dollari ed euro) almeno di dieci proiettili ad uno: le truppe iniziano ad essere stanche. La leva viene abassata da ventisette a venticinque anni, anche se il presidente smentisce che serva mezzo milioni di uomini. Questo, nonostante Putin arruoli altre centinaia di migliai di giovani.
Ufficialmente si tratta della leva militare di primavera. In realtà potrebbe anche trattarsi di un addestramento in vista di un avvicedamento al fronte. Fronte che avanza, lentamente ma avanza. Soprattutto in Donbass e nella regione di Kherson. Stoltenberg raccoglie l’allarmismo di Macron e von der Leyen, si appella ad una stabilità dei finanziamenti, alla formulazione di un vero e proprio “piano quinquennale” di economia di guerra. Cento miliardi di euro o dollari per un “fondo NATO“, per permettere all’Alleanza di sostenere Kiev in un nuova resistenza, in una possibile controffensiva.
Analisti ed esperti, tanto al di qua quanto al di là dell’Oceanto Atlantico, sostengono che la produzione di armi russa è ineguagliabile rispetto a quella occidentale. Nemmeno su un piano temporale di medio-lungo periodo è possibile dare a Kiev quei rifornimenti che le consentirebbero di vincere la guerra. Le mosse dei russi, anche in vista della consegna dei tanto famigerati caccia F-16, si fanno sempre più precise nell’anticipare le mosse dell’asse USA-Europa nell’aggiornamento dei piani di distribuzione di armamenti leggeri e pesanti.
La guerra, dopo due anni e qualche mese, entra in una nuova fase: quella della tenuta politica di amministrazioni che potrebbero, entro l’anno, cambiare le loro politiche di sostegno tanto alla NATO quanto all’Ucraina. Il piano quinquennale di Stoltenberg, infatti, è rivolto prevalentemente all’Unione Europea, visto che il probabile avvicendamento tra Biden e Trump non permette all’Alleaanza di fare il punto certo della situazione oggi e nemmeno una ragguardevole e obiettiva considerazione delle forze in campo domani.
Di apertura di trattative nemmeno se ne vede l’ombra. L’Europa diventa una fortezza di guerra, l’avamposto per ora anche degli Stati Uniti, e soprattutto di una NATO che il nuovo vigore bellicista di Macron ha ritrovato come ragione di esistenza politica interna, dimenticando che solo cinque anni fa la definiva alla stregua di un corpo in “stato di morte cerebrale“. Il presidente francese azzardava ieri, sottovalutando lo scenario internazionale, ed azzarda oggi, sopravvalutando le capacità europee di autonomia economico-bellica dagli USA.
Se Donald Trump dovesse davvero vincere le presidenziali dell’autunno prossimo e se, ovviamente, mantenesse ferma la sua parola di uno stop completo al sostegno all’Ucraina, il contraccolpo sarebbe obiettivamente fortissimo. Stoltenberg lo sta evidenziando proprio nel momento in cui è sempre più palese la cedevolezza di un fronte di guerra dove si fronteggiano due impari forze, dove non la guerra non si va decidendo, perché, alla fine, è l’eventualità dell’esponenzializzazione della stessa ad essere il termometro di misura della mondializzazione del conflitto.
Se la guerra non ci abbandona mai, forse possiamo essere noi ad abbandonare la logica che la ispira di continuo: quella della competizione a tutto tondo nel mondo delle merci, del profitto, della concorrenza spietata, dell’accumulazione a prescindere dalle condizioni di crisi del pianeta per intero. Abbandonare questa logica vuol dire ritornare a prendere in considerazione una imprescindibilità fra lotta per il disarmo e lotta anticapitalista. Ciò va oltre il dirsi “di sinistra”. Si tratta di un modus vivendi, di una prospettiva di lungo corso che sorpassa gli stretti tempi elettorali.
Eppura da qualche parte bisogna ricominciare a sviluppare una critica senza appello al capitale, al liberismo, all’economia. La scelta della pace come grimaldello rivoluzionario che scardini i piani degli imperialismi uguali e contrari, è l’unica possibile. Dentro quella parola non ci possono essere compromessi. Se si lavora per affermarne i valori assoluti, si deve evitare qualunque compromesso. Anzitutto di carattere etico-politico. Noi occidendali siamo i peggiori (e quindi ipocritamente migliori) moralisti del pianeta in materia di insegnamento dei fondamenti democratici.
La pace è, oggi, un processo costituente di una internazionale interculturale, che può essere interclassista, mentre la lotta per il disarmo no. Questi due percorsi possono fare un buon tratto di strada insieme, fino a che le spese militari oltrepasseranno quelle sociali, fino a che l’economia di guerra sarà quella prevalente. Poi toccherà magaari dividersi, a seconda delle proprie convinzioni. Ma almeno lo potremo fare senza più lo spettro della distruzione totale e di un pauperismo totalizzante.
Per ora, camminiamo insieme. La strada, intanto, sembra molto, molto lunga.
MARCO SFERINI
5 aprile 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria