Inflazione mai così alta dal 1986. E subito il pensiero va agli anni ’70, anni delle crisi petrolifere, della stagflazione e, per l’appunto, dell’inflazione.
Le analogie con quel periodo ci sono, ma tante sono anche le differenze.
Il caso italiano. Non c’è dubbio che il nostro Paese in quegli anni subì più di altri l’aumento del prezzo dei beni energetici. Ma, a differenza di oggi, in Italia come negli Usa, con l’inflazione crescevano anche i salari.
Infatti, la «spirale prezzi-salari» finì ben presto sul banco degli imputati, aprendo la strada alla stretta monetaria delle banche centrali. Combattere l’inflazione chiudendo i rubinetti del credito e della spesa pubblica, che poi un po’ di recessione farà crescere il numero dei disoccupati e diminuire il costo del lavoro (utilità dell’«esercito industriale di riserva»). Successe, oltreoceano e in Europa, e l’inflazione piano piano, sebbene con costi sociali elevati, fu addomesticata.
Oggi è diverso. Come allora c’entrano i beni energetici (Brent da 99 dollari a barile il 21 febbraio a 112 dollari; gas, in Europa, da 72 a 144 euro per MWH), ma la stagflazione va a braccetto con disoccupazione e salari fermi da trent’anni.
Gli ultimi dati dell’Istat, stando sempre al nostro Paese, dicono che il tasso di disoccupazione scende solo perché aumentano quelli che il lavoro non lo cercano più, mentre l’unico lavoro che cresce è quello precario e sottopagato.
L’inflazione da costi, insomma, non si accompagna ad un eccesso di domanda. Tutt’altro. Ne è prova la differenza tra il dato aggregato relativo all’aumento dei prezzi e la cosiddetta inflazione «core» o «di fondo» (3,7% a giugno), quella calcolata tenendo fuori i beni soggetti a maggiore fluttuazione dei prezzi, come per l’appunto gli energetici e gli alimentari freschi.
Si tratta di una distinzione importante, che non depone a favore di scelte contenitive da parte della Banca centrale europea. Agli inizi di giugno Christine Lagarde ha annunciato che nella riunione del prossimo 21 luglio, il Consiglio direttivo della Bce, dopo undici anni, aumenterà i tassi di interesse di riferimento della politica monetaria (+0,25%), e che un altro aumento ci sarà a settembre.
L’obiettivo è quello di influenzare le decisioni di spesa di famiglie e imprese. Con un costo del denaro più alto, le famiglie chiederanno meno prestiti per finanziare l’acquisto di case ed altri beni durevoli, le imprese a loro volta ridurranno gli investimenti, l’economia girerà di meno e i prezzi scenderanno.
Non solo. Da ieri, 1 luglio, le banche centrali nazionali hanno smesso di acquistare titoli di stato sul mercato secondario (dalle banche), limitandosi a riacquistare soltanto quelli in scadenza che hanno già in portafoglio.
Un raffreddamento della politica monetaria che potrebbe avere effetti poco piacevoli su un’economia europea che balla pericolosamente sul crinale tra stagnazione e recessione. E su quella italiana in particolare, sia per il quadro macroeconomico sommariamente descritto più sopra, sia per il nostro elevato debito pubblico (spread già a 200 punti base).
Alzare i tassi e rimodulare la politica di «sostanziale monetizzazione» dei debiti sovrani in questo momento, in altre parole, finisce solo per deprimere l’economia, senza conseguire risultati apprezzabili dal lato dell’inflazione.
Con un rischio ancora più mostruoso per i ceti popolari: il costo delle utenze, del carburante, dei beni di prima necessità rimangono alti, mentre crollano livelli occupazionali e redditi.
L’alternativa? Se il problema principale è il prezzo dei beni energetici, è lì che bisogna innanzitutto intervenire. Al di là della guerra, il prezzo del gas lo fa anche la speculazione? In questo caso, è una buona idea la fissazione di un tetto al prezzo del gas. A dispetto degli appetiti degli speculatori del TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam, sopra una certa soglia non si compra più. Punto.
L’Olanda non è d’accordo? L’Italia fa da sé, come stanno provando a fare Portogallo e Spagna.
Il tetto può essere applicato alla negoziazione di titoli che si scambiano sulle relativa piazze finanziari, ovvero al prezzo in bolletta, ovvero ancora al prezzo dell’elettricità all’ingrosso. In tutti i casi l’obiettivo sarebbe quello di sgonfiare la bolla dei beni energetici per raffreddare a cascata i prezzi di altri beni.
E siccome non siamo l’America, dove la piena occupazione traina i consumi, tali misure sarebbero perfettamente compatibili con una politica sociale di lotta alla disoccupazione, ai bassi salari, alla precarietà, alla povertà che cresce.
LUIGI PANDOLFI
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