Indolenza, afasia e subordinazione europea nelle grandi crisi globali

Per la prima volta dopo quasi venti giorni di guerra tra Israele e Hamas, l’Unione Europea più che far sentire la sua voce, fa cronaca. Politica, se vogliamo. Ma...
Ursula von der Leyen e Josep Borrell

Per la prima volta dopo quasi venti giorni di guerra tra Israele e Hamas, l’Unione Europea più che far sentire la sua voce, fa cronaca. Politica, se vogliamo. Ma pur sempre cronaca.

Non si può, infatti, dire che la UE abbia preso una posizione chiara, convincente e definitiva sullo scenario mediorientale; ma si può affermare che le diatribe in seno alla Commissione guidata da Ursula von der Leyen abbiano, in un certo qual modo, risvegliato un dibattito tra gli Stati e nei governi del Vecchio continente su come interpretare l’accanimento criminale del governo di Tel Aviv contro la popolazione palestinese.

Se la Presidente della Commissione si è profusa in un sperticato appoggio totale, senza alcun se e senza alcun ma, nei confronti del governo israeliano, il Commissario per la politica estera della UE, Josep Borrell, ha rilasciato dichiarazioni che smentiscono questa linea intransigente e unilaterale, affermando che la pace e la sicurezza dei due popoli non si ottengono bombardando e uccidendo i bambini, le donne, gli anziani e i più fragili che stanno nella prigione a cielo aperto di Gaza.

Una elementarità che fa fatica a farsi spazio come concetto prima di tutto morale in un tragico teatro di guerra dove è saltata ogni regola del diritto internazionale, dove non conta niente altro se non il presupposto della rappresaglia indiscriminata, della vera e propria deportazione interna alla Striscia di milioni di persone, della violazione di qualunque principio meramente umano ed umanitario con la privazione persino del diritto universale ad un bisogno primario come l’acqua.

Presidente e Vicepresidente della Commissione europea divergono su un punto niente affatto trascurabile, nel merito della questione israelo-palestinese: il limite entro cui la reazione dello Stato ebraico dovrebbe avvenire (visto che sta già avvenendo da parecchi giorni e che non si ferma la trasformazione di Gaza in un cumulo di macerie, cadaveri sepolti sotto e migliaia di bambini assassinati senza pietà dall’aviazione).

Se anche mettessimo su un piatto della bilancia una strana, insopportabile equipollenza tra le morti, se, cioè, pensassimo di vedere placata la vendetta di Tel Aviv nei confronti di Hamas con l’uccisione di un numero di palestinesi eguale a quelli fatti dai terroristi nei kibbutz e al rave party nel deserto, ci sbaglieremmo enormemente.

Per il governo di Netanyahu e Gantz, che pure scricchiola con le paventate dimissioni di alcuni ministri sempre più a disagio per come sta andando l’operazione di risposta alla strage jihadista del 7 ottobre scorso, non si è mai veramente trattato di fare i conti con la sola organizzazione che governa la Striscia di Gaza, bensì di ridimensionare la presenza palestinese nella sua totalità entro confini ancora più ristretti, portando avanti una politica di segregazionismo denunciata da organizzazioni umanitarie indipendenti come Amnesty International.

Prima ancora che nella Commissione europea ci si dividesse sul giudizio di metodo della guerra portata da Israele dentro Gaza, dopo quella portata da Hamas fuori da Gaza, la questione che si sarebbe dovuta affrontare a livello continentale avrebbe dovuto riguardare il merito delle problematiche epocali, riemerse con la strage dei kibbutz.

Invece l’Europa ha taciuto fino ad oggi, facendosi sentire soltanto con dichiarazioni di prammatica, con un solidarismo affidato ad un protocollo istituzionale veramente di poco conto, senza tentare un intervento anche polifonico e plurale nei confronti dell’ONU, sostenendo, ad esempio, per una risoluzione di condanna dell’atto criminale di Hamas e, al tempo stesso, di altrettanta condanna della repressione omicida di Israele.

Tutto questo l’Unione Europea non l’ha fatto e si è limitata a portare una solidarietà bipartisan sbilanciata, senza ombra di dubbio, sul versante israeliano, cioè quello più forte in termini militari, cioè il sempre solito avamposto americano nel Medio Oriente dove le guerre non sono veramente mai finite da ottant’anni a questa parte.

Dovrebbe essere proprio nei momenti di grave crisi interna e di sommovimento delle politiche estere che l’Unione possa mostrare e dimostrare di avere una comune visione di quello che avviene oltre i suoi confini e, quindi, agire di conseguenza con prese di posizioni autonome rispetto all’influenza statunitense e nordatlantica.

Si tratta più di un enunciato chimerico che di un anche timido auspicio di una ripresa della fisionomia comunitaria affidata alle grandi idee di Ventotene, alla condivisione delle diversità per la formulazione di una sintesi condivisa.

L’Unione Europea non ha una politica estera perché è un conglomerato di interessi economici comuni, che peraltro stanno insieme con le abnormi differenze tra Est ed Ovest, dentro un contesto di forte crescita nazionalistica frenata, ogni tanto, da qualche timore delle classi medie per la stabilità del loro tenore di sopravvivenza in scenari di guerra ai loro confini che fanno più paura per le ricadute economiche rispetto alle questioni del diritto internazionale.

Quando si legge, spesso e volentieri, che le fondamenta dell’Europa poggiano essenzialmente sulla preservazione monetaria, sul consolidamento del quadro finanziario della stessa UE, non si sta leggendo e rileggendo una litania tipica delle opposizioni sociali, sia di destra sia di sinistra, contro l’austerità che pure c’è e compenetra le politiche dei singoli Stati e che è uno degli assi portanti della politica economica della BCE.

La questione europea è tanto poco sentita come presupposto di un incontro di culture e di specificità nazionali che dovrebbero costruire un quadro più ampio di scambi e di interazioni a tutti i livelli, da essere vissuta per quello che realmente è: una somma di trattati a difesa di un polo economico-finanziario che protegge dei capitalismi nazionali altrimenti spacciati davanti alle crescite degli altri agglomerati di interessi in America e in Asia.

La guerra israelo-palestinese, e tutte le conflittualità che hanno interessato la complicatissima area mediorientale, resa tale dalla fine della Prima guerra mondiale con una spartizione dell’Impero Ottomano fatta di confini tracciati con goniometro e righello, piuttosto che rispettando le conformazioni geo-social-culturali radicatesi nel corso dei secoli tra il Mar Nero, il Mar Mediterrano ed il Golfo persico, hanno quindi avuto come interlocutori sempre e soltanto Washington e, al di fuori del perimetro della UE, la Gran Bretagna.

Un ruolo diverso e minore lo ha avuto la Francia. Certamente differente dalla riproposizione di un certo tratto imperialistico – colonialista nel Sahel e nei paesi della vecchia Françafrique.

Di per sé stessa, l’Unione Europea, in tutti questi anni non ha lavorato al consolidamento delle funzioni del Parlamento europeo che è rimasto oggettivamente ai margini dell’istituzionalismo comunitario. La centralità dell’azione e della rappresentanza estera delle posizioni tanto di politica interna quanto di politica estera della UE è stata praticamente delegata alle decisioni della BCE di Mario Draghi prima e di Christine Lagarde poi.

Il riemergere di vecchie controversie tra Stati extraeuropei, ai margini della Storia che pareva passata e che, invece, si ripresenta puntualmente come nemesi quasi di sé stessa, proprio come la questione tra Russia e Ucraina o, se vogliamo essere più precisi, tra NATO e Russia (e viceversa, ma indubbiamente con una istigazione nordatlantica nei confronti dell’orso moscovita), non ha fatto altro se non porre a sottolineatura evidente l’insufficienza e l’abalietà di un insieme di cancellerie che non hanno, nel tempo, dato vita ad un livello di autonomia e di indipendenza della UE.

Una indipendenza e una autonomia che, in particolare, sarebbero servite a controbilanciare gli effetti negativi di una globalizzazione quasi interamente a stelle e strisce, se non fosse stato per il giganteggiare del Drago cinese e l’apertura della nuova Via della Seta verso le rotte di un Occidente (e di un’Africa) da conquistare con vaste fette di mercato.

In un ambito così ristretto di concezione di sé stessa, se non entro i confini dei rapporti privilegiati di una economia di mercato completamente ossequiosa nei confronti del liberismo dominante, l’Europa rimane un concetto geografico, molto poco geopolitico e per niente istituzionale nella declinazione che dovrebbe avere una sorta di istituzione sovranazionale dalla fisionomia confederativa e che, invece, nella realtà altro non finisce con l’essere se non un aggregato di minuscoli interessi particolari.

Da solo l’Euro, per quanti sforzi abbiano fatto i governi e la BCE per farne una moneta che potesse gareggiare col Dollaro e con altre divise come il Renminbi, non avrebbe mai potuto essere il fulcro sul quale edificare la sintesi di millenni di storia di un continente in cui le singole nazioni ne sono andate alla conquista di secolo in secolo: inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, austriaci e, sul versante (per l’appunto…) più mediorientale, i turchi, si sono fronteggiati per il dominio di un possibile impero che avrebbe dominato il mondo.

L’Europa quel mondo l’ha conquistato comunque, prescindendo da sé stessa, con una espansione globalistica dal 1492 in avanti. Ma, con lo scoppio delle crisi economiche di fine Ottocento e inizio Novecento, con l’aprirsi delle stagioni delle grandi guerre da continente a continente, ha iniziato a marcare il passo e ad essere la nemica di sé stessa. Ha insegnato alle altre nazioni come dominare e, alla fine, ne è rimasta dominata.

Dopo il 1945, quando vi era la possibilità di fare dell’Europa qualcosa di veramente diverso da tutto quanto la Storia umana aveva conosciuto fino a quel momento, si è invece seguita la via dell’unione sulla base delle condivisioni economiche, degli interessi comuni che – è pure vero anche questo – erano stati un motore scatenante degli imperialismi sotto varie bandiere, forme e sostanze.

La brutalità della guerra coincide con quella dei mercati. La ferocia delle bombe e dei missili, dei mitra e dei carri armati fa il paio con le speculazioni finanziarie che devastano interi popoli e li riducono nella miseria più incostituzionale sia sul piano del diritto, sia su quello della realtà strutturale di una economia veramente criminogena

Ciò che sta avvenendo a Gaza è il riflesso condizionato di decenni di dominazione imperialista e di un apartheid che molti negano, che tanti non vogliono vedere, che pochi riescono ad affermare come dato di fatto, come specularità di una politica colonizzatrice israeliana figlia di una voglia di dominio e di potere che è legata a doppio filo con l’espansionismo americano in crisi in questi primi venti anni del nuovo secolo e millennio.

La nostra cara, vecchia Europa in tutto questo è stata la quintessenza dell’ambiguità. Da dominatrice globale a rassegnata spettatrice il passo non è stato breve e nemmeno è stato indolore.

MARCO SFERINI

24 ottobre 2023

foto: screenshot tv

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