7 su quasi 200. Tanto pochi sono i paesi che al mondo hanno legalizzato l’eutanasia e l’hanno regolamentata come diritto inviolabile di ogni essere umano per, non soltanto provare a vivere un’esistenza dignitosa, ma riuscire ad evitare una fine che neghi quella dignità cercata e magari conquistata nel corso dell’intera vita. Se la domanda successiva, poi, è «Cos’è la dignità?», la risposta non è certamente una sola, unica, universale e valevole per tutte e tutti.
Siamo ognuno differente dall’altro e le peculiarità che ci distinguono fanno in modo di consegnarci anche la responsabilità di fare di tutto questo un elemento di arricchimento della convivenza civile, della società che dovrebbe proseguire nell’emancipazione individuale e collettiva, nel rispetto della vita degli altri proprio nel momento in cui chiediamo il rispetto per noi stessi. Non è una laica riconduzione a precetti evangelici. Ma se anche lo potesse sembrare o essere, non vi sarebbe nulla di negativo nel riaffermare una proposizione che individua nella reciproca eguaglianza dei comportamenti uno dei pilastri su cui innalzare sempre maggiori tutele per il singolo individuo e cittadino.
L’egoismo individualista è esattamente l’opposto: la transizione dalla singolarità al pluralismo è negata spesso proprio in nome di stereotipi e preconcetti che appartengono alla conservazione di tradizioni secolari (quando non anche millenarie) che hanno la loro origine in remoti pregiudizi, in assolutizzazioni religiose che vorrebbero – per loro intrinseca natura – porsi al livello del metro delle morale comune: imponendosi e non proponendosi.
Dopo Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Canada e Colombia, la Spagna ha affrontato con coraggio il tema dell’eutanasia, mutuando le esperienze olandesi ed elvetiche dove l’accompagnamento alla “dolce morte” è consentito nel pieno rispetto della esplicita e consapevole volontà della persona: al doppio consenso, a distanza di due settimane, si aggiunge un iter burocratico lungo cinque settimane che prevede la scelta del metodo (in sostanza se somministrarsi da soli i farmaci per addormentarsi e non svegliarsi più, sotto supervisione medica ovviamente; oppure se affidarsi completamente al personale ospedaliero o clinico) e che attribuisce al cittadino, all’essere umano prima di tutto, la possibilità di interrompere in qualunque momento la sua decisione di porre fine alla propria vita.
La legge proposta dal governo di sinistra di Pedro Sànchez, ha avuto i voti favorevoli naturalmente di tutto l’arco della maggioranza (PSOE, Unidas Podemos), la contrarietà poco vigorosa del PPE e l’opposizione falangista dei fascisti di Vox che hanno giurato ricorso alla Corte costituzionale. Dai commenti che si possono leggere sui quotidiani iberici, da quanto si può ascoltare dalle principali televisioni del paese, la Chiesa cattolica si è detta contrariata da un uso della scienza che andrebbe «oltre la scienza stessa». Ma in Spagna ormai il clima è cambiato e la stragrande maggioranza dei cittadini sostiene riforme che vanno nella direzione della sempre maggiore garanzia dei diritti civili, compreso quello di poter evitare di contorcersi dai dolori attendendo una fine certa.
Nel nome di qualunque dio possibile ed immaginabile, la sofferenza non può più essere accettata come espiazione del peccato, come volontà trascendente: ciò comporta il distacco definitivo dall’interpretazione religiosa di una concessione della medesima all’essere umano e a qualunque altro essere vivente. Una vittoria di una laicità che guarda nella direzione di una riappropriazione del proprio corpo entro un vivere sociale dove, chi sceglie la morte, lo fa solamente perché la vita è divenuta altro da sé stessa, nell’insopportabilità fisica e anche mentale di sofferenze evitabili, che ci degradano, che ci abbruttiscono e ci fanno sentire ingiustamente in colpa verso noi.
L’ipocrisia di molte religioni è tale da continuare a sostenere che il dolore è una forma di espiazione dei peccati e che, per questo, deve essere accettato come “prova” della devozione e della “fede” verso dio. La remissione dei peccati, del resto, è al centro di una rappresentazione iconografica cristiana, soprattutto cattolica, che individua nel supplizio della croce il passaggio fisico, manifesto ed emblematico verso la salvezza di una umanità che dio riammette nel suo consesso solo dopo il sacrificio di Gesù.
Le approvazioni di leggi come quella spagnola, invece, oltrepassano questa visione fustigatrice della felicità del vivere, sottoposto al peccato originale da cui non si sfugge se non osservando tutti i sacramenti, e mettono l’essere umano e il cittadino avanti ad ogni credenza, fuori da ogni metafisica e oltre ogni misticismo, non contraddicendo affatto alcuna morale cristiana, ma esaltando semmai proprio la vita nella sua più bella espressione: l’alternanza tra gioia e dolore come sentimenti universali che non devono essere gravati dall’indipendenza del dolore fisico, cui dobbiamo sottostare per ragioni biologiche, che esulano appunto dalla nostra volontà.
Il rovesciamento delle ragioni della legge del governo Sànchez altro non sarebbe se non un ritorno alla disposizione della volontà umana nella subordinazione ad una legge-morale, così crudele da non poter essere attribuita ad un dio buono e misericordioso, ma solo all’ostilità della Chiesa e dei settori più conservatori e fascisti della società verso l’emancipazione individuale e collettiva, razionale e laica di una umanità libera dagli angosciosi riferimenti ad una intangibilità dell’esistenza che non ci apparterrebbe per intero ma che sarebbe una mera “concessione” dell’essere supremo.
Nessuno vuole morire tra atroci sofferenze o fare finta di vivere in un letto di ospedale per decenni senza potersi muovere, con lo sguardo fisso nel vuoto dopo un incidente stradale che gli ha tolto tutto tranne un battito cardiaco che non si arrende alla incontrovertibilità della situazione. Neppure una malattia congenita può menomarci a tal punto da toglierci la volontà, fosse anche l’ultima idea, il pensiero finale per decidere di ricordarsi di sé stessi nel pieno del vigore di una vita che si è consumata e che ha diritto di essere definita tale solo se è vivibile e non se diviene una immobilità totalizzante, se si somiglia sempre più all’essere piuttosto che all’esserci.
Potrà anche sembrare una questione squisitamente ontologica, ma tanti sono gli esempi di persone di ogni età, ceto e condizione sociale, in ogni parte del mondo, che hanno sperimentato la crudele imposizione di una vita che non era più piacere del vivere giorno dopo giorno, ma gravame, peso insopportabile, ritratto di un’esistenza sempre meno somigliante a sé stessa.
La dignità di ogni essere vivente, animali umani quali siamo e animali non umani con i quali viviamo e dei quali facciamo olocausto ogni giorno, dovrebbe essere un punto di inizio rivoluzionario per cambiare l’intera società: il rispetto della vita inizia laddove finisce la superstizione, il dettame teologico-dogmatico e qualunque espressione anche non religiosa di comportamento non derogabile.
La Spagna ha fatto un passo avanti nella sua civilizzazione. Può farne tanti altri, iniziando dall’abolizione delle corride considerate, purtroppo, un “patrimonio culturale nazionale” nella penisola iberica (Legge numero 18 del 2013 e sentenza del Tribunale costituzionale del 21 ottobre 2016). Uccidere per divertimento un qualunque essere vivente, che ha gli stessi diritti nostri nell’esistere e nel vivere libero, non è meno grave dell’aver avuto, fino a pochi giorni fa, una legislazione che impediva agli spagnoli di poter decidere, in ultima istanza, dell’evitamento delle proprie sofferenze inevitabili. Pensiamoci…
MARCO SFERINI
19 marzo 2021
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