Il 23 marzo 1944 a Roma i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) del Partito Comunista, realizzarono la più importante azione di guerra contro l’esercito occupante nazista in una capitale europea.
Colpirono il III battaglione del Polizeiregiment Bozen in transito in Via Rasella di ritorno dall’addestramento militare. L’attacco provocò la morte di 33 militari tedeschi (il Bozen era formato da altoatesini optanti per la nazionalità germanica) di età compresa tra i 26 ed i 42 anni tutti armati.
I Comandi Alleati espressero encomio e ammirazione per l’azione dei gappisti che operavano dietro le linee naziste mentre gli anglo-americani combattevano sul fronte di Anzio-Nettuno.
Roma dal 10 settembre 1943 era sotto occupazione dei nazisti e dei collaborazionisti fascisti repubblichini. Proprio loro, i «ragazzi di Salò», aiutarono Kappler e le SS a redigere la lista dei 335 uomini che vennero fucilati per vendetta (nel più assoluto segreto per timore della rivolta della città) il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine. Uccisi perché antifascisti, ebrei, dissidenti politici, militari leali. Si deve innanzitutto ricordare questo alla Presidente del Consiglio postfascista che ha provato in modo imbarazzante ad eludere l’identità politica delle vittime e la ragione per cui vennero trucidate. Non furono assassinati «perché italiani», una formula retorica usata tanto per le foibe quanto per le Ardeatine e falsa in entrambe i casi come dimostra la storiografia. Vennero uccisi perché compagni di lotta dei partigiani di Via Rasella; perché oppositori del fascismo e dell’occupazione nazista dell’Italia; perché ebrei «razza inferiore».
Nel 1948 i nazisti furono condannati per la strage delle Fosse Ardeatine in quanto questa venne riconosciuta non come una «rappresaglia» (istituto esistente nei codici militari dell’epoca) ma come «war crime», un crimine di guerra.
Un crimine concepito come tale dagli stessi nazisti, tanto che il maggiore Hellmuth Dobbrick (che comandava il battaglione Bozen colpito in Via Rasella) rifiutò di eseguire l’ordine di esecuzione dell’eccidio delle Ardeatine e non fu punito poiché quell’ordine violava gli stessi regolamenti militari tedeschi.
Nel 1950 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, su proposta del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, conferì ai partigiani dei GAP Rosario Bentivegna e Franco Calamandrei la medaglia d’argento al valor militare per l’attacco di Via Rasella. Tanti altri gappisti sarebbero stati decorati dalla Repubblica: Lucia Ottobrini, Mario Fiorentini, Maria Teresa Regard, Ernesto Borghesi, Marisa Musu, Pasquale Balsamo, Carlo Salinari. Carla Capponi fu medaglia d’oro.
Nei 271 giorni di occupazione nazifascista di Roma si susseguirono i rastrellamenti di 2.500 carabinieri (7 ottobre 1943); di 1.023 ebrei (16 ottobre 1943); dei quartieri ribelli come il Quadraro (17 aprile 1944); le fucilazioni di Forte Bravetta; le torture di Via Tasso e delle pensioni «Oltremare» e «Jaccarino»; la strage di Pietralata (23 ottobre 1943); quella a La Storta (4 giugno 1944) e altri centinaia di assassinii di cui si è persa memoria in un Paese travolto da un processo di desertificazione culturale che cancella l’eredità della Resistenza e dell’antifascismo.
Così il Presidente del Senato Ignazio Benito La Russa si permette di propalare da buon ultimo (prima di lui lo fecero e furono condannati a risarcire i partigiani vilipesi i vari Indro Montanelli, Mario Cervi, Vittorio Feltri) l’ennesimo falso su via Rasella, affermando che ad essere colpiti furono «musicisti pensionati e non nazisti». I «pensionati» superstiti dell’azione partigiana vennero poi impiegati per operazioni antipartigiane a Firenze, in Val di Susa, Valsugana al Cadore e Alto Adige.
Il postfascista La Russa non solo mente ma insulta la Resistenza tutta. Definisce Via Rasella «una pagina tutt’altro che nobile» e attacca i «partigiani rossi che non volevano un’Italia democratica ma il comunismo», dimenticando che operavano alle direttive del CLN nazionale. Rilanciando così un mantra ideologico storicamente fasullo ma molto amato anche dai «liberali» di casa nostra. Frasi che qualificano l’autore e sottolineano quanto sia inadatto alla carica che ricopre e dalla quale, in altri Paesi democratici, si sarebbe già dovuto dimettere. Inadatto lui quanto Meloni, esponenti di una storia estranea alla Costituzione ed ai valori fondativi della Repubblica. Invitiamo entrambi a studiare i documenti che compongono l’archivio dei GAP di Roma. Non sarà difficile trovarli: sono conservati all’Archivio Storico del Senato.
Le menzogne e la vergogna che suscitano in chi le ascolta non scalfiscono la storia dei GAP che restano le figlie ed i figli migliori che Roma ebbe sotto il terrore nazifascista e le cui azioni di guerra (centinaia in tutta la città) sono valse alla Capitale la Medaglia d’oro al Valor Militare per la Resistenza conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2016.
Oggi quei gappisti non ci sono più e sta alle nuove generazioni difendere come proprio patrimonio la loro eredità non lasciando sola la loro storia: «A via Rasella, per fortuna, siamo diventati tanti – scriveva Rosario Bentivegna nel 1975 in una lettera ai suoi comandanti militari di allora Giorgio Amendola e Antonello Trombadori – del resto a via Rasella io, come voi, ci stavo allora e ci sono rimasto sempre».
DAVIDE CONTI
È stato curatore degli archivi Bentivegna-Capponi e Fiorenti-Ottobrini per l’Archivio Storico del Senato della Repubblica
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