Nel lavoro di Emilio Prini esposto nella Documenta X di Kassel, quella curata da Catherine David nel 1997, compariva il mio nome associato alla qualifica di «storica dell’arte». Qualche tempo prima avevo chiesto a Prini spiegazioni sulla natura e sullo svolgimento dei suoi lavori romani degli anni settanta per poterli descrivere in un libro. Prini me ne aveva parlato con esattezza, ma mi aveva anche pregato di non pubblicare niente a riguardo. Rispettai la sua volontà. Assecondandolo feci onore alla storia dell’arte, oppure no?
Emilio Prini è deceduto il primo settembre scorso, in seguito a una malattia che lo aveva colpito ancora giovane e che lo limitava nei movimenti e gli rendeva difficile la parola. Enigmatico, schivo, sono gli attributi che compaiono con maggiore frequenza, in questi giorni, nelle note che danno notizia della sua scomparsa. Secondo la rivista americana «Artforum», a Prini e al suo lavoro sono stati spesso associati i termini ungraspable (sfuggente), deceptive (ingannevole), cryptic (criptico). Fino a quando ce la faceva a camminare, sorretto da un’amica, e ancora nei primi tempi in cui era costretto a usare la sedia a rotelle, Prini, a Roma, la città dove viveva, non perdeva una mostra. Con larghezza dispensava la sua attenzione. Può la sua malattia avere influito, in qualche misura, nel suo essere enigmatico e schivo? Per i critici e gli storici dell’arte che hanno lavorato con Prini, schivo ed enigmatico si traduce in un novero di richieste, talvolta impossibili da soddisfare e persino contraddittorie. Un’azione di snervamento che fu causa di non poche rotture, alcune passeggere, altre più durature, qualche volta pagate da Prini con arbitrarie rimozioni del suo lavoro. Questo snervamento riservato a quanti intendevano mostrare le sue opere o scriverne, era esso stesso espressione del suo lavoro? Un lavoro che molte volte si è nutrito della presenza di altri o di qualcos’altro.
Nelle indicazioni su Perimetro d’aria, la stanza vuota perimetrata da fonti luminose e da un dispositivo sonoro che Prini espose nella mostra Arte povera e Im Spazio curata da Germano Celant alla galleria La Bertesca di Genova nell’autunno del 1967 (mostra d’esordio sia di Prini sia dell’Arte Povera), si legge «presenza di altri oggetti accettata». Nella rassegna con la quale Plinio De Martiis alla galleria La Tartaruga di Roma, nel maggio del 1968, celebrò il principio dell’immanenza, Il teatro delle mostre, Prini si presentò con un sacco di juta contenente pezzi di legno sui quali aveva scritto i nomi delle persone incontrate durante il viaggio da Genova a Roma. Alla mostra Op Losse Schroeven: situaties en cryptostructuren curata da Wim A. L. Beeren allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1969 si mise a fotografare di schiena alcuni degli artisti presenti. Con Pier Paolo Calzolari si scambiò i vestiti. Nel libro Arte Povera del 1969 enunciò il processo di un «oggetto viaggiante (5 punti di luce sull’Europa)» a compimento del quale, in un punto di convergenza tra Düsseldorf, Amsterdam, Parigi e Londra, si incontrarono (si sarebbero dovute incontrare?) persone diverse.
Sulla base di quali presupposti Prini chiamava altri a raccolta? Nei rapporti personali era gentile e ironico. Un conversatore appassionato che amava esporre le sue teorie sull’arte e parlare dei suoi artisti preferiti, quasi venerati, tanti e di tutte le epoche. Sapeva ascoltare. Esercitava la pratica del dono. Si metteva in gioco con «simpatia», per usare un termine tra quelli chiave dei suoi testi. Conosciamo i suoi passi, il suo peso, la sua figura: la sua schiena segnata da un piccolo cuore rosso, il suo profilo con un naso finto o con una maschera che perimetra l’occhio e suggerisce l’ampiezza del suo campo visivo, Prini che corre, che si alza da un letto, con una mano sul petto, con una busta in mano sul Monte Fasce a Genova, che salta. I suoi passi sono forme di legno dipinte di grigio che solidificano il vuoto tra una gamba e l’altra (una falcata, la sua, di circa un metro), il suo peso lo ha consegnato a lastre e ad altri elementi di piombo, metallo con il più alto peso specifico e sinonimo di pesantezza. La figura l’ha affidata alla registrazione fotografica.
Come convivevano nel suo lavoro la concretezza di una materia tra le più solide della terra, il piombo, e il processo di smaterializzazione che il mezzo fotografico impone alla figura? In Fermacarte la convivenza è persino testuale. I processi con i quali ha imbastito i suoi lavori sono mirati alla sparizione dell’autore o intendono minare, dall’interno, certe operazioni meramente rituali della cosiddetta arte concettuale? Mostrando la fotografia della sua macchina fotografia, elaborò l’effige dello strumento che riduce la figura in effige. Un apparecchio, fa sapere, che «addiziona il lavoro artistico» e che ha una «durata d’uso prevista» di «20.000 scatti». Con una delle opere intitolate Standard dimostrò l’evidenza di una incongruenza o l’incongruenza di una forzata sintesi o, ancora, la gioia e l’incanto di un compimento? Di fatto, adattò un’asta di metallo, flessibile e lunga più di sei metri, ad ambienti di misure diverse. Possibile sia una metafora e che lo standard sia l’arte universale? In ogni caso fu risoluto. Si convinse della necessità dell’azione.
Di tante azioni riferì con l’immediatezza del passato prossimo, come se le avesse appena compiute (per alcune sarà stato anche così). «Ho fatto un viaggio con Pico Grazia Nancy Paolo». «Ho letto Alice nel paese della meraviglie». «Ho preparato una trappola per Alice». «Ho percorso una strada in salita». «Ho incontrato una tempesta, l’ho salutata». «Ho costruito una casa». Questi enunciati, insieme a tutti gli altri che costellano il suo lavoro, furono un modo, anche, di prendere le distanze da quella sorta di sospensione sulla base della quale molti suoi coetanei misuravano, all’epoca, la loro apertura mentale? A procurare le sue rabbie fu la difficoltà a mantenersi in equilibrio tra la necessità della materia e il bisogno dello spirito in nome di concetti che da sempre l’umanità si porta dentro?
Ridusse all’essenziale la sua presenza nelle grandi kermesse internazionali dell’arte d’avanguardia, da When Attitudes Become Form curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969 all’ultima edizione di Documenta firmata Carolyn Christov-Bakargiev. In alcuni casi rispose all’invito e niente altro, pubblicando nei cataloghi delle mostre la sua adesione: «Confermo partecipazione mostra» nel catalogo della mostra Processi di pensiero visualizzati al Kunstmuseum di Lucerna nel 1970, o «Conferma partecipazione, edizione – posta e telegrafi – telefono pubblico – telefono Genova Emilio Prini Achille Bonito Oliva 06326589 Roma» nel catalogo della mostra Pèrsona al Festival internazionale del teatro di Belgrado nel 1971, fino a quando sparì anche dalle pagine del catalogo a lui riservate che lasciò bianche, come è accaduto in occasione della mostra Arte Povera al Kunstverein di Monaco nel 1971. Poi riconsiderò le cose, dispose pannelli, mostrò volumi e famiglie di volumi, scrisse, disegnò, si applicò agli ingrandimenti (fotografici), allestì vetrine, ideò «una esposizione di oggetti non fatti non scelti non presentati da Emilio Prini» (Galleria Toselli, Milano 1975), dialogò con La Pimpa di Altan (Galleria Giorgio Persano, Torino 2008), con Gianna Nannini (su invito di RAM radioartemobile alla Bunker Art, Milano 2009), con il fotografo Dino Pedriali (Galleria Pio Monti, Roma 2012), tornò e ritornò sui suoi precedenti lavori.
Sono rari gli studiosi che si sono cimentati, con approccio monografico, nell’esegesi delle sue opere cangianti negli anni e mai compiute. Tra i pochi a farlo, Germano Celant nel volume sull’Arte Povera del 2011, Friedeman Malsch e Adachiara Zevi nel catalogo della personale alla Ancienne Douane di Strasburgo nel 1996, Luca Lo Pinto di recente su «Flash Art», Cornelia Lauf con una bibliografia. Tutti contributi documentati, ma che svelano solo parzialmente l’enigma del suo lavoro. Verrà il tempo di studiarlo e di analizzarlo? I documenti e le opere non più mutabili dalle mani dell’artista sveleranno qualche segreto? Prini sembra avermi suggerito di sì. Nel salutarci ai tavolini di un bar mi donò un tovagliolino, di quelli che sono a disposizione degli avventori entro appositi contenitori, pezzi di carta piegati in due con una parte più lunga e una più corta. Vi aveva tracciato sopra un disegno. Le istruzioni me le diede a voce: sollevare e riabbassare il lembo inferiore del tovagliolo, ripetendo «Il segreto di Pulcinella» «Il segreto di Pulcinella» «Il segreto di Pulcinella».
DANIELA LANCIONI
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