«Ho chiuso gli occhi per non vedere chi moriva accanto» ha raccontato in Procura ad Agrigento uno dei tre uomini sopravvissuti quell’ultimo naufragio di gennaio rimasto privo di soccorsi. Le donne con i loro bambini, anche un neonato, sono andati a fondo per primi. Liliana Segre scriveva nelle sue memorie del campo di Auschwitz: «Per uscire dall’incubo l’unico modo era voltare la faccia dall’altra parte, non vedere».
Nel Mediterraneo e in Libia il male è sempre di grande attualità. «L’attualità del male. La Libia dei lager è verità processuale», a cura di Maurizio Veglio, (Edizioni SEB27), è il titolo di un libro scritto da giuristi. Il volume è un atto di accusa contro prassi politiche perseguite dai governi italiani e dall’Unione Europea in spregio ai diritti umani, purché i migranti restino o vengano riportati in Libia. Gli autori del volume analizzano la sentenza pronunciata dalla corte d’Assise di Milano il 15 ottobre 2017 alla luce del presente e di un passato più o meno recente (i crimini nazisti, la guerra in Jugoslavia).
Due giudici togate insieme ai giudici popolari della corte di Milano avevano condannato all’ergastolo il cittadino somalo Matammud Osman. Era stato fermato da altri suoi connazionali nei pressi della Stazione Centrale di Milano, che avevano riconosciuto in lui l’aguzzino che nel campo di Bali Walid in Libia li stuprava e torturava, costringendo i parenti a sentire le loro urla al telefono. Un sistema di ricatto collaudato, l’attività imprenditoriale più lucrativa oramai da tempo in Libia. Per la prima volta una Corte di giustizia di un Paese dell’Unione Europea ha scritto nero su bianco quello che in questi anni sta succedendo ai migranti nei centri di detenzione libici e condannato uno dei carnefici, accusato da tredici uomini e quattro donne di indescrivibili crudeltà.
La sentenza stabilisce non solo la verità processuale, ma anche la verità storica di accadimenti che proseguono in Libia. Il documento descrive con rara chiarezza le stazioni della via crucis delle vittime fino al loro arrivo in Italia. Tremenda la descrizione del campo di Bali Walid, «dotato di un grandissimo hangar all’interno del quale venivano tenute recluse circa 500 persone. Intorno a questo capannone c’era un cortile sorvegliato da uomini libici armati . I migranti dormivano tutti insieme, uomini e donne, ed erano così ammassati che non c’era neanche lo spazio per muoversi. L’hangar non era areato, le condizioni igieniche erano del tutto scadenti, c’erano pidocchi ovunque, molti migranti soffrivano di malattie della pelle. Non potevano lavarsi, il cibo fornito era scarso. I profughi erano costretti a rimanere chiusi dentro al capannone giorno e notte, senza nemmeno poter parlare fra di loro».
L’accusato preleva i reclusi ogni giorno, li portava in una stanza delle torture, dove li tormentava con scariche elettriche, gli faceva colare addosso plastica incandescente; li appendeva per le mani e li colpiva con bastoni di gomma e spranghe di ferro, li lasciava per ore incaprettati a disidratarsi sotto il sole. Per terrorizzare tutti, ne uccideva alcuni, lasciando i cadaveri esposti per giorni. Quotidianamente prendeva le ragazze anche minorenni e le sottoponeva a interminabili, gravissime violenze sessuali, ancora più penose per le quelle infibulate. Una lettura insostenibile, ma è necessario far conoscere questa sentenza perché tali crimini continuano a essere perpetrati in Libia su sempre nuove vittime.
L’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) – che difende i diritti civili e umani dei migranti – si era costituita parte civile nel processo con l’avvocato Piergiorgio Weiss, che scrive ne «L’attualità del male»: «Dopo questa sentenza non possiamo più continuare a girarci dall’altra parte la domanda è: possono l’Italia e l’Europa ignorare tutto ciò, possono far finta di non sapere che riportare in Libia i profughi significa portarli in lager dove sono praticate le peggiori torture?». Continua Pierpaolo Rivello che è stato pubblico ministero in molti processi contro i crimini compiuti dai nazisti in Italia: «La pronuncia conferma che attualmente i campi di prigionia libici possono essere considerati dei veri e propri lager. Gli orrori che si perpetrano sono assimilabili a quelli che si verificarono a Treblinka o ad Auschwitz. Alla luce di questa sentenza appaiono ancora più gravi le conseguenze delle scelte adottate dalle autorità del nostro Paese, volte a favorire il contenimento del flusso dei migranti».
Il Ministero degli Interni tiene con acribia il computo degli sbarchi: sono diminuiti a gennaio 2019 dell’95,58 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018 e del 95,54 per cento rispetto al 2017. Di questo dato il governo va fiero, ma si dimentica di ringraziare per questi dati quello precedente che il 3 febbraio 2017 ha firmato con la Libia un Memorandum: per «la lotta all’immigrazione clandestina e il controllo dei confini», dare «supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina come la Guardia costiera» e proseguire l’«adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza già attivi», formarne il personale libico oltre che predisporne altri. Il governo italiano, con appoggio e finanziamento dell’Ue, ha delegato il lavoro alla Guardia costiera libica. Il Consiglio europeo il 28 giugno 2018 ammoniva le Ong: «Tutte le navi operanti nel Mediterraneo devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della Guardia costiera libica».
L’avvocato Lorenzo Trucco, Presidente dell’Asgi, spiega ancora ne «L’attualità del male» che questo Memorandum, come altri recenti accordi, sono giuridicamente «deleghe di respingimento. Ricordiamo – dice Trucco – che la Libia rimane un paese che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritto d’asilo e di rispetto dei diritti umani». Tali violazioni sono denunciate nell’ultimo report dell’Unhcr sulla Libia (settembre 2018), comprese quelle compiute dalla Guardia costiera libica. A novembre del 2017 l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Zeid Ra’ad Al Hussein aveva scritto: «L’Unione europea e l’Italia stanno fornendo assistenza alla Guardia costiera libica per l’intercettazione di barche di migranti nel Mediterraneo, comprese le acque internazionali», nonostante tale aiuto condanni «sempre più migranti a detenzioni arbitrarie e senza limite temporale durante le quali verrebbero esposte a torture, stupri, lavoro forzato, sfruttamento ed estorsione». È proprio quello che hanno raccontato i 17 cittadini somali durante il processo di Milano, e almeno quella corte gli ha reso giustizia.
La Libia è un inferno e la Guardia costiera non risponde alle chiamate di soccorso. «La Guardia costiera è un’invenzione – dice Domenico Quirico – che ha scritto la prefazione del libro. «La Polizia libica non esiste, il controllo dell’ordine pubblico è affidato a milizie di diverse gradazioni, islamisti, non islamisti, banditi, canagliume puro. La strada è stata aperta da Minniti quando è andato a fare accordi, legittimando dal punto di vista politico e giuridico persone che dovrebbero stare in galera per i reati menzionati dalla sentenza della Corte di Assise di Milano».
«I migranti – scrive ancora Trucco – vengono considerati non più un problema, ma nemici, e coloro che li aiutano, le navi delle Ong, essendo loro alleati devono essere combattuti. I soldi della cooperazione vengono deviati per rafforzare i controlli dei confini in Libia come in Niger. C’è una forma di razzismo istituzionale evidente, queste persone non contano sono di rango inferiore, sono non-persone».
Le vittime chiudono gli occhi per non farsi sopraffare dalla disperazione. Per dirla con le parole di Primo Levi, fino a quando saremo sordi, ciechi e muti di fronte a tanto, «una massa di invalidi intorno a un nucleo di feroci».
ANTONELLA ROMEO
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