Nel paese dove si salvano le banche con 68 miliardi di euro, non si trovano i 7 miliardi all’anno necessari per un sostegno «universale» contro la povertà assoluta. Senza contare i 14-21 miliardi necessari per finanziare le ipotesi di reddito minimo che permetterebbe di affrontare seriamente un nuovo problema: la «trappola della precarietà». Oggi in Italia chi lavora con un reddito basso non riesce a sottrarsi alla povertà e arrivare a fine mese.
La clamorosa asimmetria, prodotto di un gigantesco spostamento di ricchezza verso il capitale e di politiche economiche sbagliate come i bonus a pioggia o l’abolizione della tassa sulla prima casa, si ritrova nel report «La povertà in Italia» nel 2016, pubblicato ieri dall’Istat. Come sempre i dati vanno interpretati, e visti sulla tendenza di medio periodo: gli ultimi dieci anni, quelli della crisi. L’Istat sostiene che nel 2016 i «poveri assoluti» erano 4 milioni e 742 mila persone, pari a 1 milione e 619 mila famiglie residenti. La «povertà relativa» riguarda 8 milioni 465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie. Rispetto al 2015, il livello si presenta «stabile». Dato in sé preoccupante a conferma che nulla è stato fatto in quei 12 mesi dal governo Renzi, in un periodo in cui le statistiche attestavano una «crescita» che non produce occupazione fissa, né un arretramento della povertà. Tuttavia c’è qualcosa che peggiora ancora. L’incidenza della povertà assoluta sale tra le famiglie con tre o più figli minori e interessa più di 814 mila persone. Oggi aumenta e colpisce 1 milione e 292 mila minori.
Parliamo di persone che non riescono a raccogliere risorse primarie per il sostentamento umano: l’acqua, il cibo, il vestiario o i soldi per un affitto. Questa situazione riguarda anche coloro che possiedono un lavoro. L’incidenza della povertà assoluta è doppia per i nuclei il cui capofamiglia è un «male breadwinner» e lavora come operaio. L’Istat registra anche un’altra tendenza: la «povertà relativa» colpisce di più le famiglie giovani. Raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under35 mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne. L’incidenza della povertà relativa si mantiene elevata per gli operai (18,7%) e per le famiglie dove il «breadwinner» è in cerca di occupazione (31,0%). Suggestioni statistiche che indicano l’esistenza di un continente sommerso: il lavoro povero, e non solo quello della deprivazione radicale a cui spesso è associata la tradizionale immagine della povertà.
La situazione generale è tale che Marco Lucchini, segretario della fondazione Banco alimentare onlus, ha sostenuto che oltre 80 mila tonnellate di cibo distribuite in 8 mila strutture caritative in Italia hanno arginato la crescita del fenomeno, ma non non risolvono l’emergenza sociale più dimenticata nel Belpaese. Dieci anni fa, nel 2007, i poveri assoluti erano 2 milioni e 427 mila persone. Oggi sono raddoppiati: 4 milioni e 742 mila. È uno scenario di guerra, quella economica che prosegue silente, ma concretissima, da anni. A tutti i livelli.
I rimedi sono pannicelli caldi. Ieri il ministro del Welfare Giuliano Poletti si affannava, ancora, nel tentativo di spiegare come il governo ha modificato i criteri di accesso alla prima, e modesta, misura «contro la povertà». Quest’anno 800 mila persone dovrebbero prima beneficiare della social card del «Sia» che sarà trasformata in corsa nel «reddito di inclusione». La sproporzione è evidentissima: solo i poveri assoluti sono 4 milioni e 742 mila persone. Ci sarebbe bisogno di una misura pluriennale crescente fino a 7 miliardi, ma i fondi stanziati resteranno fermi al miliardo. E poi dovranno essere rifinanziati. Ma questa è un’altra storia: riguarderà la prossima legislatura. Quindi un altro mondo, un altro universo, lontanissimo. Concretamente si parla di un sussidio di ultima istanza che va da un minino di 190 a un massimo di 485 euro per le famiglie più numerose con 5 componenti. Importi per di più vincolati a una serie di condizionalità che rendono tale sussidio tutto tranne che «universale».
La disconnessione totale tra la politica economica seguita in questi 10 anni e la condizione materiale che urla da questi dati è evidente. L’Alleanza contro la povertà, il cartello di associazioni e sindacati che ha premuto per ottenere il «reddito di inclusione» chiede l’introduzione di un piano pluriennale già dalla prossima legge di bilancio che permetta a chi non ha una famiglia con figli di condurre uno standard di vita dignitoso. Susanna Camusso (Cgil) ritiene che tale «reddito» sia uno «strumento corretto da finanziare» evitando di «distribuire bonus a pioggia». Il Movimento 5 Stelle attribuisce gran parte delle responsabilità di questa situazione «all’immobilismo politico del governo Renzi». Giulio Marcon (Sinistra Italiana) fa un ragionamento di sistema: questo è il frutto del cieco rigore delle politiche Ue e dell’incapacità dei governi di uscire dalle disuguaglianze e dalla precarizzazione progressiva.
ROBERTO CICCARELLI
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