Forse trent’anni sono anche pochi per fare una storia di Rifondazione Comunista. Un bilancio sì, ed anche doveroso. Ma la storia la si potrà scrivere quando l’ultimo dei due partiti nati dalle ceneri del PCI avrà superato sé stesso in un’altra formazione o si sarà superato e basta.
Al momento, ciò che rimane è una non più omogenea organizzazione territoriale, qualche migliaio di iscritti in tutta Italia, una presenza su Internet male in arnese, seppure – va detto senza alcuna partigianeria data per scontata – coraggiosa nel suo insistere nel proporsi e riproporsi.
Se tutto questo non finisca con il farci diventare i fantasmi di noi stessi, è più che altro un dilemma che affidiamo al giudizio di chi ci succederà nella lotta sociale e politica.
Questioni di psicanalitico ancestralismo sono difficilissime da estrinsecare, perché risiedono in gran parte in un inconscio che è impenetrabile, inconfessabile a noi stessi che, pure, siamo ben consapevoli delle tante, troppe sconfitte che abbiamo subito in questi anni e che, forse, soltanto ora ci hanno insegnato a non mettere da parte un progetto (Unione Popolare) da cui ricominciare la salita.
Almeno a far data dal 2008 in poi, quando con “la Sinistra – l’Arcobaleno” iniziò il tracollo che, complici ovviamente anche le leggi elettorali fatte ad exludendum delle forze minori, per consistenza numerica, e ad adiuvandum di quelle spiccatamente “maggioritarie“, pienamente inserite nella illogicità antidemocratica della “logica dell’alternanza“, ci si è ripetuti molte più volte rispetto al passato se fosse ancora necessaria una sinistra comunista, un movimento che, addirittura, si richiamasse all’alternativa di una società che aveva vinto nel proporsi come rampantista, egoistica, egocentrica su un multilivello strutturale globalizzato.
La volontà di conservare all’Italia (e non solo) esclusivamente una sinistra moderata e riformista, accantonando quelle che i socialdemocratici di un tempo e i moderni liberisti – progressisti (un ossimoro che il trattino contribuisce a lenire nella sua incongruità manifesta) definivano spregiativamente come sinistre “radicali” (involuto sinonimo stigmatizzate equiparabile ad “estremista“), rientrava perfettamente nel disegno di polarizzazione degli schieramenti creati dall’avvento del berlusconismo.
Tutto questo “semplificazionismo politico” era funzionale ad una ristrutturazione capitalistica che potesse essere gestita senza maggioranze complesse e complicate.
Fu la voluta illusione di cenacoli di opportunisti di vario genere, propensi a stabilire un legame indissolubile con quel liberismo che veniva prepotentemente avanti e che assegnava agli imprenditori anche il compito di fare politica, di “scendere in campo“, di sostituire una classe dirigente decapitata da Tangentopoli con una nuova erede di quel sistema fatto di corruttele e sudditanze dell’interesse pubblico a quello privato.
Gli eventi storici hanno dato adito a sconvolgimenti nazionali, a vere e proprie tempeste perfette in cui si sono uniti il disprezzo per le ideologie, quindi per le ampie coscienze di massa che avevano – in un certo qual modo – una visione del futuro imbastita su alcuni cardini essenziali, su una cultura che, almeno un tempo, si sarebbe potuto ottimamente definire “popolare” (ed in altri contesti “elitaria“), e l’importanzione “stars and stripes” di una leaderizzazione della politica veramente esasperata ed esasperante.
Il singolo sul collettivo ha vinto già ben prima della fine dei grandi partiti di massa; ha vinto prima che a sinistra si prendesse in considerazione di fare largo ad un compromesso tra orizzonte socialista e attualismo mercatista spacciato come sano pragmatismo contro un utopismo oggettivo, comprovato dalla caduta del “comunismo” ad Est.
E’ un po’ l’insieme dei dubbi e delle considerazioni che emergono, tanto dalle domande quanto dallo sviluppo delle stesse, che Paolo Favilli mette nero su bianco nel suo lavoro “In direzione ostinata e contraria. Per una storia di Rifondazione comunista” (Derive Approdi, 2011).
Se trent’anni – si diceva all’inizio – sono pochi per fare una storia del PRC, probabilmente venti sono sufficienti per iniziare a pensarla, offrendo ai lettori uno spunto; anzi, degli appunti in forma di compiuto ragionamento su quello che accadde da quel 1989 in cui tremò il mondo e ne venne giù un bel pezzo.
Ed infatti, Favilli non intende scrivere una storia ma scrivere “per la storia” del Partito nato dalla convergenza un po’ improvvisa di culture del socialismo e del comunismo italiano non certo facili da riunire in una nuova formazione anticapitalista.
Il partito moderno che Rifondazione voleva essere allora, ringiovanendo la critica marxista del sistema delle merci e dei profitti, finì con l’essere presentato dalla “stampa borghese” come qualcosa di vecchio, un arnese da soffitta, un movimento che si faceva partito e che aveva come rappresentanti deputati e senatori dai capelli bianchi.
Anche questo modo di descrivere la “rifondazione comunista” serviva a istantaneizzarla come un esperimento disperato di un nostalgismo sovietista, piuttosto che del “movimento che abolisce lo stato di cose presente“. Proprio con la stagione dei movimenti, in particolare con quello di Genova, con i social forum e con le reti che si stabiliranno internazionalmente (prendendo esempio dalla nuova teorizzazione zapatista del “camminare domandando” e del “pensare locale, agire globale“), Rifondazione vedrà stimolato internamente un dibattito non semplice da considerare nell’impatto innovativo.
La scelta di stare accanto, e dentro al tempo stesso, al “movimento dei movimenti” non impedirà di continuare ad elaborare criticamente tanto la congiuntura che di volta in volta si creerà tra situazione sociale e panorama politico italiano, quanto una dialettica aspra che condurrà, col tempo, ad una separazione dei campi, ad un abbandono delle ultime incrostazioni staliniste, per abbracciare una spinta libertaria che, seppure con vicende alterne, caratterizzerà il prosieguo della vita del PRC. Almeno fino ad oggi,
Come sottolineano sia Ferrero nell’introduzione, sia Favilli nel corso dell’esposizione, questa è una storia che va scritta senza astrazioni, senza disgiugimenti ideali, senza separazioni di alcuna sorta, ma tenendo ben presente il portato dell’idea stessa contenuta nell’intuizione della “rifondazione comunista” come processo continuo di ricerca, di adeguamento alla realtà di una analisi moderna, di una critica altrettanto tale della mutazione liberista del capitalismo novecentesco.
Tuttavia, per quanto la Storia non conosca soluzione di continuità, sarebbe ingeneroso pensare di poter far dipendere in tutto e per tutto la vita del Partito della Rifondazione Comunista soltanto da ciò che lo precedette e proiettarlo nell’incertezza attuale del futuro vincolandolo alla “disperanza” che ci accompagna da molti anni.
Dopo sconfitte elettorali di vario peso e natura, dopo fallimenti di indirizzo politico che non sono stati docenti nei nostri confronti, maestri di un mutamento necessario, di una riconsiderazione stessa dell’idea di comunismo che avevamo e che possiamo continuare ad avere mutatis mutandis, non si arriva ad una conclusione perché la parola il “finis” non è ancora stato pronunciato.
Semplicemente, un giorno Rifondazione potrà anche tramutarsi in altro, ma ciò che conta è che non commetta l’errore di divenire altro da sé stessa, che non imiti chi voleva cambiare il mondo ed è stato, invece, cambiato radicalmente dal mondo.
L’attualità del comunismo sta tutta nella presa d’atto che il sistema capitalistico è un continuo fallimento: l’essere contraddizione di sé stesso, nel momento in cui pretende di soddisfare i bisogni di una umanità arrivata ad otto miliardi di individui, con risorse naturali sempre meno disponibili e con uno sfruttamento becero di tutte le altre specie viventi, mette il liberismo davanti ad una responsabilità oggettiva nell’oggi, prima di tutto, e nella sua insostenibilità per il futuro.
L’anticapitalismo non è una mera contrarietà aprioristica, fondata su dogmi e stereotipi, su raffigurazioni di gigantografie di chi contribuì a snaturare il portato libertario del movimento del lavoro e degli sfruttati. E’, semmai, l’unica alternativa possibile per una evoluzione umana altrimenti soltanto condanna alla propria disumanità, ad un eterno ritorno di cause e concause che non faranno altro se non generare un corto circuito di depauperamento delle risorse, un impoverimento strutturale globale.
Va raccolto l’invito di Paolo Favilli ad adoperare il metodo storico per dare vita ad una storia del PRC che sia anche storia della sinistra italiana, di una parte importante di questa dopo la caduta del socialismo reale, dopo la fine del PCI e l’avvento in Italia di un riformismo marcatamente liberale prima e liberista poi, mai socialdemocratico nel vero e proprio senso politico ed organizzativo del termine.
La “questione del fallimento” della “rifondazione comunista” come processo storico alla sinistra moderata e come fenomeno moderno della continuità con le idee del passato tradotte in una pratica del presente, deve essere evitata soltanto come ripicca revisionistica o come rivincita di non si sa bene quale superiore e moderna etica della concretezza dei fatti.
Chi, ancora oggi, si ostina a proprorre l’antica dicotomia tra idea e realtà, tra teoria e pratica, non fa i conti con una storia sconfitta, ma ripropone solamente la sua incapacità di eviscerare i problemi, di darne una lettura critica e, al contempo, oggettiva.
Rifondazione Comunista sapeva, fin dal 1991, di nascere nel “mondo grande e terribile” di sconvolgimenti epocali, di mutamenti tanto enormi da far impallidire certamante i nani ma anche i giganti su cui questi erano seduti. I trentuno anni di vita di questo “piccolo partito dalle grandi ragioni” (in fondo, il PRC è anche l’erede di Democrazia Proletaria) non sono stati inutili. Almeno da qui si dovrà pur partire per iniziare a scrivere la storia che, per ora, non è affatto arrivata alla sua ultima pagina.
IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA
PER UNA STORIA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA
PAOLO FAVILLI
DERIVEAPPRODI, 2011
€ 8,50
MARCO SFERINI
16 novembre 2022