Il testo che segue, pubblicato in parte su ADIF, risponde ad una domanda che da giorni mi sento rivolgere da compagne e compagni del partito. C’è una proposta di legge di iniziativa popolare sui temi dell’immigrazione lanciata soprattutto da Emma Bonino e che sta raccogliendo adesioni nel mondo politico e associativo. Numerosi i banchetti per raccogliere le firme necessarie, un tema che torna almeno in discussione non in forma emergenziale. Cosa ne pensa Rifondazione Comunista? Avanzo quindi alcune riflessioni, basandomi sul testo in esame e scusandomi per la lunghezza. In sintesi comunque provo ad evidenziare aspetti positivi, perplessità e carenze presenti nel testo. Se dovesse mai finire in parlamento sarà oggetto di discussione non prima della prossima legislatura e, in quel contesto, dovremmo a mio avviso presentarci con proposte più articolate e non legate ad un approccio liberista dove il migrante è considerato importante in quanto risorsa economica e solo allora portatore di diritti e non come cittadino.
Da alcune settimane numerose forze associative, sindacali, politiche, stanno raccogliendo le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”. La campagna con cui viene lanciata la proposta ha uno slogan splendido “Ero straniero” e riprende tanto il vangelo quanto una necessità che in un paese dove cresce la xenofobia, va certamente considerata significativa. Il testo proposto come legge è breve, composto di 8 articoli, e di fatto non va a sostituire il Testo Unico in vigore, quello, per capirci, introdotto nel 1998 dalla cosiddetta “Turco-Napolitano”, poi modificato a più riprese, con la “Bossi-Fini” del 2002 e col “Pacchetto Sicurezza” del 2009. La scelta è stata quella di “emendare” la legge esistente, con interventi che la migliorerebbero notevolmente, ma senza rimetterne in discussione l’impianto complessivo.
Il testo va analizzato bene ma sono prima opportune alcune premesse di carattere prettamente politico.
La prima è che, se venisse posta in discussione oggi in parlamento, la proposta non troverebbe la maggioranza ma sarebbe certamente difesa da chiunque, compreso chi scrive, sogna da decenni un testo migliore di quello in vigore
La seconda è che questo testo sarà certamente strumento di campagna elettorale, con le elezioni politiche che ormai si avvicinano: esso avanza proposte temperate, in grado di avvicinare un elettorato moderatamente progressista ma diffidente nei confronti di riforme troppo “radicali”. Chi è oggi al governo ne trarrebbe certamente giovamento per mostrare ad una “sinistra responsabile”, che si vuole non velleitaria, che si possono migliorare le condizioni di vita dei migranti in Italia.
La terza è di ordine più legato all’informazione mainstream. Il testo si rivolge soprattutto ai tanti e alle tante che sono oggi in Italia privi di strumenti di reale tutela – e questo è un bene – a potenziali persone che potrebbero voler entrare in Italia (sempre meno secondo demografi come Massimo Livi Bacci) ma parla a chi vede l’immigrazione soprattutto sotto forma di barche, gommoni, centri di accoglienza, richieste di asilo. Il testo è rivolto cioè ad un numero vastissimo di persone (almeno 5 milioni di immigrati stabilmente residenti in Italia) ma viene percepito pubblicamente come legato ai 180 mila sbarcati durante lo scorso anno. Due mondi diversi che raramente si incontrano.
La quarta è che si tratta di modifiche che, dal punto di vista dell’impatto concreto sulla disciplina dell’immigrazione, paiono arretrate, anche rispetto alla Turco Napolitano o al naufragato tentativo del DDL Amato Ferrero del 2007. In 20 anni, tanti ne ha la legge 40 (altrimenti nota appunto con i nomi degli allora ministri Livia Turco e Giorgio Napolitano), è però cambiata la tipologia dell’immigrazione, sono cambiate le ragioni e le prospettive per cui si emigra, è cambiato il mondo del lavoro a cui si fa continuamente riferimento, ma soprattutto è cambiata, sia in peggio che in meglio, la società italiana.
La quinta è connessa al fatto che l’Italia non è più un paese di recente immigrazione. La presenza straniera cresce da almeno 30 anni (anzi ora è in calo) e nel paese si sono stratificate generazioni di “cittadini a metà”, magari anche nati qui, che hanno maturato consapevolezza, prima sindacale e poi politica, varia e diversificata, e che non vogliono sentirsi oggetti ma soggetti di norme legislative. Che giustamente pretendono di essere interpellati e rappresentati, lo si è visto anche con la manifestazione recente di Milano del 20 maggio scorso.
Il rischio di una proposta del genere, “al ribasso” rispetto a una realtà profondamente mutata, è di giungere ad una legge che migliori sì il quadro complessivo, ma risulti ancora meno efficace rispetto alle esigenze non solo di chi emigra ma dello stesso sistema Italia.
Mi pare giusto affermare che occorrerebbe maggior coraggio, innalzare l’asticella, provando a dimostrare ad una opinione pubblica frastornata che ogni tipo di approccio proibizionista e repressivo, ogni tentativo di operare una sorta di selezione forzata di chi arriva basata sulla propria convenienza, non solo ha fallito ma ha prodotto guasti ancora peggiori.
Da ultimo, come spesso afferma il mio amico Sergio Bontempelli, si tratta dell’ennesima riproposizione di un approccio in cui il migrante è un “soggetto sotto tutela”, che può entrare e soggiornare solo se c’è qualcuno che “garantisce” per lui (o per lei): che arriva come in un binario già disegnato, da cui non può uscire se non superando ostacoli infiniti, accettando condizioni che non ci si sogna di imporre agli autoctoni.
Un simile approccio rischia di riprodurre subalternità, esclusione, senso di estraneità quando va bene, rabbia e rancore diffuso quando va male. Il tutto in un contesto come quello italiano in cui, malgrado l’assenza di diritti politici, i cittadini stranieri o di origine straniera fanno parte ormai delle più diverse fascie sociali, in cui cresce il lavoro autonomo e la realizzazione di attività imprenditoriali, dove se gli episodi di marginalizzazione più disparati occupano ancora le pagine dei quotidiani il lento ma costante inserimento sociale si va realizzando anche e nonostante, le norme legislative e le stesse istituzioni. Possiamo, partendo da questo guardare ancora agli esempi non riusciti di inclusione in buona parte d’Europa, per evitare il ripetersi di tali errori. Cambiare gli obbiettivi insomma. Ma prima, è doveroso, diamo uno sguardo al testo su cui si vanno raccogliendo le firme per poter essere presentato in parlamento.
La proposta di legge
La prima modifica (art.1) interviene sull’articolo 22 del T.U. (disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Si tratta di 3 commi: il primo istituisce il permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di lavoro relativamente all’ingresso di lavoratori intermediati dai soggetti autorizzati.
Nella pratica ci dovrebbero essere intermediari – pubblici o privati – in grado di favorire domanda e offerta nel mercato del lavoro, potendo selezionare persone idonee a cercare occupazione per 12 mesi. L’intermediario deve disporre di strutture idonee all’estero, semplificare il rilascio di un permesso di soggiorno appunto valido un anno garantendo che lo straniero disponga dei mezzi di sussistenza per il periodo previsto.
Lo straniero selezionato si impegna al rimpatrio in caso non trovi un lavoro al termine di detto periodo, ed è considerato elemento preferenziale nella selezione un attestato di conoscenza della lingua italiana.
Il secondo comma ripristina la figura dello sponsor, (Prestazione di garanzia per l’accesso al lavoro). In pratica ci dovrebbe essere chi, dall’Italia, “prende in carico”lo straniero fornendo la garanzia di risorse finanziare adeguate e una disponibilità alloggiativa per il periodo di permanenza in Italia, con agevolazioni per chi da noi ha già lavorato o conosce la lingua italiana o di formazione professionale.
Questi due commi, se approvati, certamente aprirebbero dei canali di ingresso in cui però le scelte di chi vuole venire, le competenze professionali, il patrimonio culturale, sarebbero vagliate e selezionate da soggetti terzi che di fatto limiterebbero anche ogni forma di progetto migratorio maturato autonomamente dai migranti. Verrebbero selezionate le persone ritenuti in ultima istanza utili al mercato del lavoro con il vantaggio di poterle rispedire a casa in caso di mancata corrispondenza con le aspettative riposte. Ottimo affare per gli intermediari e gli sponsor, vera e propria catena per chi viene, soprattutto se giovane, con propri legittimi progetti di vita. Del resto, la stessa effimera esperienza della Turco – Napolitano ci insegna anche che gli “sponsor” non hanno mai neanche introdotto “migranti utili al mercato del lavoro” (cosa ideologicamente discutibile ma che ha senso), quanto persone assoggettate e dipendenti da agenzie specializzate, da “buone” famiglie italiane, da connazionali, da finti datori di lavoro ecc. Si tratta in sintesi di una immigrazione ancora sotto tutela. Gli unici esempi storici validi in cui questo sistema ha maturato vera discontinuità vanno ritrovati nei Trenta Gloriosi, o prima degli anni Settanta, in Belgio o in Francia in cui sanatorie permanenti e generalizzate erano realmente funzionali ad un mercato del lavoro in crescita.
Il terzo comma da inserire (22- quater) contiene l’intuizione felice di permettere la regolarizzazione per “comprovata integrazione dei migranti irregolari, compresi i “diniegati” (coloro, cioè, cui è stata rifiutata la domanda di asilo. Ma come si mostra tale “comprovata integrazione?”. Con la disponibilità immediata al lavoro (a qualsiasi lavoro?), con l’accesso a “misure di politica attiva nel lavoro” (lavoro volontario?) concordate con i centri per l’impiego. Il passo avanti è indubbio, ma le condizioni della “comprovata integrazione” andrebbero meglio specificate.
Si tratta ovviamente di un permesso provvisorio che non si rinnova se tale disponibilità non si traduce in un contratto di lavoro per un periodo “congruo” (e il precariato che è una costante?), o alla registrazione nell’elenco dei disoccupati, con conseguente sottoscrizione di un patto che impegni a non sottrarsi, salvo giustificato motivo, a convocazioni e ad appuntamenti nei centri per l’impiego. Quello che insomma per un autoctono si può tradurre nella perdita degli ammortizzatori sociali, per chi è straniero si traduce invece nella perdita del diritto a soggiornare, ovvero all’espulsione. Se ne evince che, in caso di approvazione, ci potranno essere sempre più stranieri disponibili, pur di non perdere tale diritto, a lavorare in condizioni meno garantite rispetto agli italiani con conseguente incremento dello scontro fra sfruttati.
Un plauso incondizionato invece al secondo articolo del T.U. che viene modificato e con cui si garantisce il riconoscimento agli stranieri, che risiedono regolarmente e stabilmente nel territorio nazionale, il diritto dell’elettorato attivo e passivo nelle consultazioni elettorali e referendarie a carattere locale., nonché il diritto di partecipare alle consultazioni referendarie indette dagli enti locali, agli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
Tale diritto non è stato sinora garantito non solo perché a detta di alcuni giuristi richiederebbe modifiche costituzionali (per altri sarebbe sufficiente legge ordinaria) ma di fatto perché l’Italia non ha ancora dato applicazione al capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 5 febbraio 1992 in materia di partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale.
Il capitolo in questione impegna le parti a concedere agli stranieri residenti il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni locali. L’Italia si è avvalsa della facoltà (prevista dalla stessa Convenzione) di non aderire a questa parte dell’accordo.
Tale cambiamento segnerebbe nel tempo, insieme ad una legge di riforma della concessione della cittadinanza, carica dei limiti già denunciati, un notevole progresso e un maggior potere contrattuale, nella vita sociale ed economica, dei residenti di origine straniera.
L’articolo 3 sanerebbe almeno in parte, una ingiustizia. Stabilisce che il lavoratore straniero che lascia il territorio nazionale conserva tutti i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e possa goderne, anche in deroga al requisito dell’anzianità contributiva minima (20 anni). Si tratterebbe di applicare di fatto il regolamento CE che favorisce gli Stati membri. In caso poi di rientro definitivo dello straniero attraverso un programma di rimpatrio volontario assistito sarebbe ammessa la corresponsione dell’80% dell’ammontare di quanto maturato.
L’articolo 4 abrogherebbe finalmente le fallimentari quote d’ingresso degli stranieri. Si toglierebbe un “cappio” che ha pesato per un decennio almeno sulle possibilità di vita e sulle opportunità di regolarizzazione dei migranti. Ma il tema centrale resta ignorato, quello di aprire canali di ingresso (italiani o europei?) meno rigidamente vincolati al mercato del lavoro.
L’articolo 5 si rivolge in parte positivamente ai richiedenti protezione internazionale, modificando il decreto legislativo 142 del 18 agosto 2015 con cui l’Italia, in ritardo ha attuato le direttive 32 e 33 del 2013. Si prevede che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo possa essere trasformato in permesso di soggiorno per comprovata integrazione. Ovviamente bisognerà poter dimostrare di essersi integrati nel tessuto civile, sociale e del nostro Paese e questo sarà desumibile innanzitutto dalla immediata disponibilità al lavoro, come già previsto nel primo articolo modificato.
Inoltre si modifica il comma 3 prevedendo la possibilità di rafforzare il legame tra accoglienza e inclusione lavorativa attraverso la partecipazione del richiedente asilo a iniziative di carattere formativo, di riqualificazione o di politica attiva concordate con i centri per l’impiego. Con le condizioni del mercato del lavoro di oggi, ne beneficerebbero certamente i più preparati, idonei, con maggiore potere d’acquisto nella giungla della concorrenza, ne sarebbero estromessi i soggetti più fragili o con meno strumenti a disposizione. Resta inevaso il tema di individuare maggiori e ulteriori garanzie a chi è più fragile non perseguendo, come logica quelle di limitarle a chi ha già più risorse.
L’articolo 6 sarebbe migliorativo del T.U. e anche della Turco Napolitano, perché prevede che si dia completa attuazione a quanto previsto in materia di accesso alle cure non previste dal SSN. Quindi piena equiparazione dei diritti assistenziali fra cittadini comunitari o meno, possibilità per i minori, indipendentemente dallo status giuridico, di avere il medico di base. Un passo avanti significativo verso l’equiparazione
L’articolo 7 è estremamente positivo in quanto garantisce parità di trattamento nelle prestazioni di sicurezza sociale (assegno di natalità, indennità di maternità ecc) per chi è titolare di permesso di soggiorno da almeno un anno e non, come accade oggi solo per chi è titolare della carta di lungosoggiornanti. Si offrono insomma strumenti di sostegno ai soggetti più vulnerabili e questo è un fatto indiscutibilmente significativo.
L’articolo 8 abolisce il reato di clandestinità, all’origine. E questo sanerebbe, sia a livello legislativo che culturale, un elemento di discrimine che già era presente in nuce nel DL 26 luglio 1998 ma che ha subito inutili involuzioni securitarie e propagandistiche negli anni a venire, soprattutto durante il governo Berlusconi nel 2009.
Conclusioni
Ad una lettura, laica, di questa proposta che ha certamente il merito di riportare ad un livello minimo di civiltà la discussione sul tema immigrazione, non sfuggono tanto i limiti evidenziati in premessa quanto le carenze derivanti da quanto il testo non prevede.
Si è fatta una scelta, certo coraggiosa, quella di legare l’accoglienza al lavoro e ai diritti sociali e di questo bisogna fare tesoro. Ma se, a fronte della precarizzazione del mercato del lavoro si mantiene un nesso inscindibile fra lavoro stabile (chimera per molti) e presenza stabile sul territorio, molti altri nodi restano inevasi.
Si torna insomma ad una Turco Napolitano, riveduta e corretta mentre il mondo attorno è cambiato e la circolazione stessa delle persone si è fatta più fluida (malgrado i muri) più orientata a collocarsi dove ci sono prospettive e meno stabile e definitiva (sono tante le persone che rientrano dopo essersi formate in Europa), più intrecciata con le migrazioni forzate dovute a guerre, dittature, catastrofi ambientali, crisi economiche senza uscita e meno al miraggio dell’occidente opulento. Oggi non solo quel testo del 1998 parla di un mondo che non c’è più ma lo stesso DDL Amato Ferrero, che forse avrebbe evitato tanti guasti, risulta obsoleto ed è necessario veramente ripensare, possibilmente insieme ai soggetti protagonisti delle migrazioni e non sulla loro testa, nuove risposte a domande inevase
Gli uomini e le donne entrati irregolarmente e che non possiedono le caratteristiche richieste dal mercato che fine dovrebbero fare?
Quali strumenti si possono creare per determinare reale inclusione sociale, investendo risorse che poi ricadrebbero anche come benefici per l’intero paese?
Si considera ancora intoccabile il sistema di detenzione amministrativa per gli “irregolari” da espellere? I prossimi CPR (Centri permanenti di rimpatrio) che amplieranno il sistema dei CIE, per quale ragione non dovrebbero risultare fallimentari come quelli sperimentato in passato? Anche i nuovi CPR si preannunciano come fallimentari perché irriformabili, rispetto alle modalità di privazione della libertà personale, perché inutili a garantire i rimpatri che vorrebbe l’Europa, perché costosi e causa di sofferenze tanto per chi ci è detenuto che per chi ci vive intorno. Si vogliono ripetere simili inutili scelte?
E ancora quanto può reggere semplicemente nella logica del rapporto costi / benefici, il tema dei rimpatri forzati? Ha senso o è unicamente strumento di propaganda elettorale, buono per far credere che “i clandestini sono rinchiusi” e che quindi la vita è più serena?
Quali forme di controllo attuare nei confronti dell’immenso sistema di manodopera irregolare che datori di lavoro non vogliono contrattualizzare? Se fa fede la Circolare del Capo della Polizia del 30 dicembre scorso e le conseguenti retate etniche in giro per le città, sembra che invece che colpire chi sfrutta si fa numero incastrando chi è sfruttato. Ma si risana una economia e si crea coesione sociale in questa maniera o si condannano le persone all’invisibilità?
Quali risorse investire in necessarie forme di inclusione sociale capaci di tenere conto anche dei disagi sociali preesistenti?
Come fare in modo che una crescita delle politiche sociali investa tanto gli autoctoni quanto i migranti ad esempio nel diritto alla casa, ad una scuola decente, a servizi dignitosi creando così gli anticorpi a scontri nel disagio? Si tratterebbe di un salto culturale e politico notevole, ovvero estrapolare dalle “leggi sull’immigrazione” tali temi e portarli su un ambito di redefinizione delle politiche sociali, un segnale per rompere il “noi” “loro” o il becero “prima gli italiani” che segna il pensiero comune popolare.
Come ripensare radicalmente un sistema di accoglienza (20 anni fa i numeri non imponevano tale progettazione oggi si), tali da portare a rendersi autonome le persone accolte e contemporaneamente a non permettere che tale sistema si trasformi in un business sul modello di “Mafia Capitale”?
Come sottrarre tutto quello che riguarda la vita dei migranti al potere discrezionale del Ministero dell’Interno che ha come scopo legittimo esclusivamente la sicurezza nazionale, delegando gran parte delle modalità di inclusione anche formale agli uffici comunali?
Di questi quesiti e di tanti altri che potrebbero essere proposti, non c’è traccia in un testo così ambizioso. È possibile che abbia ragione nel pensare che oggi la società italiana, il suo egoismo e la sua xenofobia insita non potrebbero sopportare ulteriori cambiamenti. Personalmente credo invece che, già in sede di discussione pubblica, occorra parlare del paese reale, delle sue paure e dei suoi limiti culturali, sociali, economici. Credo che occorra alzare l’asticella e osare provando a dire cose semplici e immediate. Provando, anche in maniera pedagogica, a far si che nuove leggi creino cultura diversa o quantomeno contribuiscano e costringano a lasciarsi alle spalle alibi elettoralistici e a proporre il paese, il continente in cui vorremmo vivere tutti e vivere meglio. In fondo è questo il nostro compito. Detto questo, contribuire affinché almeno questa proposta porti a discutere in maniera non emergenziale di immigrazione, nel prossimo parlamento, è cosa positiva.
STEFANO GALIENI
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