Imane Khelif, una vittoria più che meritata

I social non danno quasi mai il tempo per riflettere. Spingono le pulsioni a sovrastare i ragionamenti e inducono ad essere “sempre sul pezzo“, qualunque cosa accada, trasformandoci in...

I social non danno quasi mai il tempo per riflettere. Spingono le pulsioni a sovrastare i ragionamenti e inducono ad essere “sempre sul pezzo“, qualunque cosa accada, trasformandoci in commentatori a tutto tondo di qualunque cosa. La tuttologia – sosteneva Carmelo Bene – è di per sé una cazzata, in quanto tale, perché è un apriorismo che pretende di essere posteriorismo. Certo che si può avere un opinione su tutto, ma la differenza qui sta nell’avere una opinione da far prevalere su tutte le altre.

Non si può nemmeno argomentare sul fatto che si potrebbe trattare di una qualche forma di tentativo egemonico-culturale, perché i processi di mutamento in questo senso sono molto più lenti ancora rispetto alla comunicazione indiretta di un tempo (giornali, manifesti, radio, televisione): figuriamoci se è possibile anche solo immaginare un mutamento pseudo-antropologico dalle righe twittate o diffuse altrimenti da esponenti del governo o dell’intellighenzia che gli ruota attorno…

Sarebbe fare un torto all’egemonia come concetto nobile di tendenza all’influenzamento delle opinioni mediante altre opinioni in un rapporto di reciproco confronto e di prevalenza, alla fine, o di una sull’altra o di una sintesi tra le due o più idee e pensieri immersi nel rapporto dialettico tanto della società quanto della politica intesa in senso lato. Qui siamo alla miseria non della filosofia, ma della comunicazione più elementare.

Perché è stata banalizzata, resa così individuale ed egotica da non essere più vincolata al minimo senso del pudore per una verità dei fatti che, per quanto interpretabile possa essere, non sfugge alla verifica dell’oggettività. E, nel caso conclamatissimo e dibattutissimo sui social, e oltre i social, dell’incontro di pugilato durato appena una quarantina di secondi tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, la scelta degli esponenti del governo è stata pelosamente patriottica per veicolare il messaggio che l’atleta partenopea andava incontro ai pugni, praticamente, di un uomo.

Khelif, infatti, da quello che si è riuscito a capire nella miriate di falsità che circolano, è una donna il cui corpo produce una quantità di testosterone maggiore rispetto alla consuetudine biologica femminile (evitiamo di parlare di “normalità” per una volta…). Questo, per alcuni standard stabiliti dai vari comitati sportivi, può o non può – a seconda dei casi – essere un discrimine e invalidare la sua partecipazione a competizioni in cui gareggiano le donne.

Fatto salvo tutto ciò, rimane la questione oggettiva: Khelif è una donna e non è un uomo. Ma non è nemmeno una persona che sta facendo la transizione da un sesso all’altro. Nel suo paese le uniche pratiche sessuali consentite sono quelle tra uomo e donna. Chi viene sorpreso a praticare atti omosessuali è punito con la detenzione fino a tre anni di carcere. Parimenti è vietata qualunque pratica affettiva omo-bi-transessuale che non contempli il sesso ma anche solo l’affetto.

Anche volendo, Khelif non avrebbe potuto in Algeria diventare un uomo. I giornali e i politici di destra si sono scatenati in una campagna di condizionamento psicologico devastante- Titoli di articoli come: «Nelle olimpiadi gender un algerino prenderà a pugni una donna italiana», mescolano avversione nei confronti di una disquisizione moderna e necessaria sulle differenti manifestazioni della sessualità che (se ne avvedano un po’ tutte e tutti) non viene meno nei naturali genere maschile e genere femminile.

Ma i confini non possono essere sempre netti e precisi: la cosiddetta “fluidità” non è banalizzabile al punto da ritenere che domani saremo quasi tutti uomini incinti o donne con la barba, come da immagini di manifesti di partiti di governo che prendono una cantonata dopo l’altra in termini di biologia e di evoluzione della specie. Pretendendo di sapere tutto, sono sempre quelli che non sono ciò che contestano, o non hanno esperienza nel merito, a conoscere praticamente ogni cosa su quel merito medesimo.

Gli onnivori la sanno più lunga dei vegetariani e dei vegani su vegetarianesimo e veganesimo; gli eterosessuali la sanno ancora più lunga degli omosessuali e dei bisessuali e transessuali sulle loro sensazioni, sui loro desideri, sulle loro affettività. E via discorrendo. Perché gli esempi di presunzione anti-argomentativa sarebbero davvero molti, troppi purtroppo. Abbiamo invece bisogno di pacatezza, di confronto e non di scontro, di umiltà nel chiedere e nell’ascoltare e, quindi, nell’essere anche chiesti ed ascoltati per le nostre opinioni. Per ciò che siamo e pensiamo.

Basta invece che un ministro lanci un tweet affermando che una pugile trans dell’Algeria si scontrerà sul ring con una pugile donna dell’Italia e si apre una cloaca di veri e proprie fiumane di pressapochismo machista, che rivendica per sé il trittico dio-patria-famiglia anche in questo caso e che è pronto a erigere le barricate dei pregiudizi piè reconditamente retrivi che abitano nel subconscio di una incultura impressionante di larga parte dalla popolazione italiana.

Se fosse anche vero che sono bastati meno di quaranta secondi per indurre la nostra atleta a ritirarsi dalla competizione, perché alla fine non stringere sportivamente la mano alla vincitrice? La domanda travalica tutto quello che può essere avvenuto nell’animo e nel fisico di Angela Carini. Pressioni mediatico-politiche, magari anche una certa propria propensione a non sentirsi a proprio agio nell’anello di combattimento con una atleta non considerata al pari di sé stessa.

Qualunque spinta emotiva o difficoltà tecnica può avere indotto Carini ad abbandonare la gara. Forse si è pure distratta nella concitazione del momento e ha dimenticato il gesto di solidarietà sportiva del darsi comunque la mano dopo un incontro. Forse. Perché qualche dubbio viene. Anche perché, mentre tutto questo avveniva in diretta televisiva e i social rimbalzavano immagini e commenti a profusione, Giorgia Meloni era in visita a Casa Italia, la residenza delle azzurre e degli azzurri nella Parigi olimpionica.

E pronta a commentare anche lei l’accaduto, affermando che alla fine della fiera poi il gender fluid causa qualche discriminazione nei confronti delle donne. Insomma, è colpa di chi è donna e ha una produzione testosteroidea maggiore rispetto ad altre donne e, nonostante questo, viene valutata perfettamente in grado di concorrere alle gare olimpiche. Gli altri ministri e sottosegretari che si erano lanciati in anatemi sulle botte dell’uomo algerino alla donna italiana cercano un riparo dietro nuove dichiarazioni.

Ma non chiederanno mai scusa per aver detto delle castronerie brutte e cattive. Perché la teorizzazione dell’ideologia gender o woke è un argomentazione che va per la maggiore nella sobillazione dell’italica gens moderna che rivendica la sacralità della famiglia perbene fatta da un padre, una madre e tanti figli da donare alla patria come vorrebbero i signori del governo: incentivi e premi da un lato, repressione dei diritti delle altre famiglie dall’altro.

Sono proprio sbagliati anche i concetti di maggioranza e minoranza, di normale e anormale: finché resteremo chiusi in questi preconcetti mentali, per cui ciò che è di più ha un plusvalore rispetto a ciò che è di meno, il cortocircuito mentale non sarà spezzabile. Assoceremo sempre la normalità alla maggioranza e l’anormalità alla minoranza. Varrà così la legge del più forte per numero che, quindi, sarà nel giusto; per il più debole quantitativamente il premio sarà il diritto alla tolleranza.

E la tolleranza, ripetiamolo ancora, è un pessimo concetto: essere tolleranti non è una virtù. Significa che si sopporta ma che, in fondo, si biasima e che, quindi, in cuor proprio si preferirebbe non avere accanto ciò che invece si è costretti, per l’appunto, a tollerare. Diviene necessario cambiare noi stessi nell’approccio a tutte queste dinamiche, anche e soprattutto comunicative: perché il linguaggio – diceva sempre Carmelo Bene – crea dei guasti enormi senza che ce ne accorgiamo.

E proprio nell’inconsapevolezza di ciò sedimenta una larga chiazza di buona fede oleosa su cui scivolano in tante e in tanti, pensando di essere dalla parte giusta dell’attualità: perché chissà dove si va a finire se non si sta belli irregimentati dentro la binarietà del maschio e della femmina, dell’uomo e della donna. Non i comunisti e le comuniste, ma la biologia, quindi la scienza, ci dice che in ognuno di noi c’è una parte femminile per quanto riguarda l’uomo e una parte maschile per quanto riguarda la donna.

La prevalenza di un desiderio piuttosto che un altro, di una sessualità dalle tante sfumature non è la negazione dell’eterosessualità in quanto elemento imprescindibile per la perpetuazione della specie. Se questa è la paura recondita e atavica che hanno quelli di destra, molti del centro e anche tanti a sinistra, che ha, insomma, una buona fetta della popolazione italiana a prescindere dal suo credo politico, può essere messa da parte facilmente.

Tutto ciò che esiste in Natura è naturale. Eterosessualità prevalente nella specie, omosessualità, bisessualità, transessualità, intersessualità. Come nel caso di Imane Khelif che, nata donna, ha dovuto fare i conti, in una società omobitransfobica con una struttura fisica e biologica diversa ma non sbagliata rispetto alle altre donne algerine. Sul combattimento interrotto era stato montato un caso ad arte prima che le due atlete salissero sul ring. Ed ora sapere dove stia di casa la buona fede in Italia è davvero dura poterlo verificare e scoprirlo.

Quella che si rivela certa è la pochezza della classe dirigente nazionale di una destra di governo e tutto un parterre di giornalismo che regge la coda ad un esecutivo incapace di abbracciare i valori di uguaglianza che fondano la Repubblica e sono scritti in una Costituzione che a dei postfascisti piace fino ad un certo punto. Vi si potrà anche giurare sopra per proforma, per poter sedere a Palazzo Chigi e, un attimo dopo, muovere nella direzione esattamente opposta alla Carta del 1948 in materia tanto di diritti sociali quanto civili ed umani.

L’unico lieto fino in questa piccola storia ignobile è la vittoria di Imane Khelif. Se l’è meritata davvero: per quei trentasei secondi di scambi di destri e sinistri ma, soprattutto, per tutti gli attimi successivi che ha dovuto trascorrere sul ring prima che il suo braccio venisse alzato al cielo.

MARCO SFERINI

2 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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