Il voto obbligatorio: soluzione a breve termine o trasformazione culturale?

«Il fatto che le persone non vadano a votare è un problema, si figuri: io lo renderei persino obbligatorio». Eccoci qua, con la classica frase proposta da mezza classe...

«Il fatto che le persone non vadano a votare è un problema, si figuri: io lo renderei persino obbligatorio». Eccoci qua, con la classica frase proposta da mezza classe politica odierna. Via con il voto obbligatorio, che dovrebbe risolvere il problema dell’astensionismo; e ci mancherebbe pure.

L’articolo 48 della Costituzione sancisce che “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.” In sostanza, è un obbligo morale, ma non legale.

Ma se si obbliga il cittadino a votare, siamo sicuri che esso stesso sentirà anche l’obbligo ad informarsi, a seguire la vita politica attiva, a interessarsi di questioni chiave del paese? Bisogna dunque interrogarsi anzitutto sui fattori che rendono moralmente obbligatoria un’azione all’interno di una società.

Il matrimonio, ad esempio, non è legalmente obbligatorio all’interno di una relazione sentimentale; eppure, fino ad alcuni decenni fa, arrivava quasi spontaneo ad una coppia il pensiero al matrimonio dopo qualche tempo dal fidanzamento: tutto ciò è dato da una questione culturale.

Le volontà morali derivanti dalla crescita in una cultura cattolica, la semplice attitudine a pensare al matrimonio poiché cresciuti in un ambiente propenso allo stesso fenomeno.

A differenza del matrimonio, un obbligo morale come il voto può arrivare anche tramite insegnamenti diretti, non solo indiretti: John Stuart Mill, nel suo saggio “Considerazioni sul governo rappresentativo”, pubblicato nel 1861, suggerisce che l’educazione e la cultura politica sono fondamentali per una partecipazione elettorale informata.

Egli credeva che l’educazione civica potesse incoraggiare la partecipazione alle elezioni, riducendo così l’astensionismo. Inoltre, Mill era favorevole al voto obbligatorio, ritenendo che potesse incentivare la partecipazione.

Ma il voto obbligatorio dovrebbe fungere soprattutto da effetto influenzante a lungo termine all’interno della cultura di una società; dunque, non è tanto il fatto di recarsi alle urne perché è obbligatorio, ma, poiché la cultura del voto diverrà intrinseca in una società, il cittadino sarà maggiormente spinto da questioni morali, pur essendo una questione legale.

Il voto obbligatorio è solo una via obbligata, ma ciò che conta di più sono gli strumenti necessari che la politica deve fornire ai cittadini, per percorrere questa via e per arrivare a destinazione preparati e non indottrinati.

La vera sfida è formare cittadini consapevoli, capaci di comprendere le questioni chiave del paese e di esprimere un voto informato. Solo così si può sperare in una partecipazione elettorale che non sia solo alta in termini numerici, ma anche significativa dal punto di vista della qualità delle decisioni democratiche.

Insomma, alla politica interesserebbe solo la percentuale di votanti, ma non la qualità dell’informazione che c’è dietro ad un voto. Anzi, più voti frutto di disinformazione ci sono, meglio è.

Paradossalmente, ipotizzando l’applicazione “all’italiana” di questo obbligo, tutto finirebbe in un soddisfacimento generale fine a se stesso per l’alta percentuale di votanti, ma nessuno si interrogherebbe, per esempio, sull’incentivo dell’istruzione.

Ancora una volta, il dualismo tra qualità e quantità nella nostra democrazia, evidenzia come la classe politica sia maggiormente concentrata sui propri interessi, che possono essere soddisfatti anche da uno scarso consenso, piuttosto che sulla sostanza, che richiede investimenti e produce qualità che, come diceva Gaber, è nemica della democrazia.

SIMONE SANTANIELLO

30 giugno 2024

foto: screenshot

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Analisi e tesi

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