In Francia hanno la NUPES, acronimo per la “Nouvelle Union Populaire Écologique et Sociale“, e hanno un progetto di convenzione nazionale che guarda ad un progressismo innovativo, socialista, comunista, verde, giovane, rivolto davvero a dare gambe ad un progetto di riconsiderazione tanto dei programmi quanto delle esigenze che devono esservi collegate: quelle dei francesi che hanno un reddito insufficiente, una scuola da migliorare, una sanità da ripubblicizzare, un lavoro da riqualificare entro 32 ore, la fine della flessibilità contrattuale, il ritorno, quindi, dei contratti collettivi nazionali.
Si tratta di una bella ambizione politica, di una necessaria aspirazione a dare alla Francia un governo che provi a realizzare queste riforme veramente radicali e veramente in antitesi e assolutamente alternativo a quello che le forze politiche di centro (che fanno riferimento al rieletto presidente Macron) o quelle di destra (che fanno invece riferimento alla sconfitta Marine Le Pen) propongono sotto mentite spoglie.
Le promesse di fare della Francia una locomotiva d’Europa al pari della Germania, nella visione tattica di piccolo cabotaggio del leader della République en March, sono realizzabili (ammesso che lo siano, dati gli attuali fattori di crisi internazionale) solo al prezzo di altri sacrifici per quei ceti modernamente proletari che Jean-Luc Mélenchon invece individua come il motore propulsivo del grande esagono, della Nazione intesa davvero come unità tra rappresentanti e rappresentati, partendo dalle esigenze della moltitudine indigente e non da quelle della pochezza imprenditoriale e padronale.
La sfida delle elezioni politiche francesi è un passaggio dirimente per la riconferma del piano liberista di Macron da un lato o, dall’altro, per la sua messa in discussione attraverso l’espressione di una critica popolare che arrivi all’Eliseo da un risultato del voto che veda le maggiori preferenze per quella sinistra di alternativa che sarebbe potuta andare anche al ballottaggio presidenziale, escludendo così il trasformismo lepeniano da qualunque sogno di conquista presidenziale, se non si fosse presentata divisa.
Ma oggi, uniti su proposte come quella del salario minimo per tutte e tutti a 1.500 euro mensili, ecologisti, sinistra socialista e comunista, La France Insoumise e Génération.S hanno trovato una unità che mira a prendere il posto delle destre nella contesa del potere politico, e di tutte le ripercussioni sociali che comporta una azione di governo, relegando il Rassemblement National ad un ruolo più marginale, facendone venire meno l’appeal nei confronti delle classi sociali più disagiate e più vessate dalle politiche liberiste macroniane.
Una unità che mira a conquistarsi il diritto di vincere direttamente al primo turno in molti dipartimenti della Repubblica e di conquistarsi il diritto di poter prevalere in tanti altri al ballottaggio con una piattaforma programmatica che, per la prima volta dopo molto tempo, unisce le ragioni sociali a quelle ecologiche e guarda oltre il ristretto campo dei soli interessi di classe che, pure, sono e devono essere il baricentro attorno a cui far gravitare tutte le prerogative esigibili per una trasformazione sociale che sia anche trasformazione ambientale, rispetto della vita di ogni essere vivente.
La NUPES elimina la contraddizione che i liberisti hanno sempre tentato di stabilire tra lavoro e ambiente, li correla, li fa viaggiare sullo stesso binario di uno sviluppo che elimini qualunque disparità sociale, per uno Stato che, letteralmente, “elimini collettivamente la perdita di autonomia individuale“.
Questo significa mettere in stretta correlazione il ruolo che la società, e non solo le istituzioni, possono avere nella soluzione dei problemi singoli, nell’affrontare tutte quelle specificità che sono frutto della complessità moderna e che, spesso, il capitalismo affronta con l’arma dell’emarginazione, della discriminazione, separandole dal contesto in cui avvengono e facendone addirittura un motivo di stigma.
In Francia hanno al NUPES, in Italia non abbiamo ancora nulla di tutto questo: non abbiamo una sinistra moderata capace di sganciarsi dall’anomalia democratica, veltroniana, renziana o lettiana che sia, e soprattutto da una disposizione altamente opportunistica di sopravvivere a sé stessi dandosi una possibilità nel campo di un centrosinistra tanto improbabile quanto ormai sempre meno definibile come tale.
La illogicità della bislacca alternanza dei poli politici italiani, dai labili e geometricamente variabili confini ideali e pure programmatici, tiene banco proprio come elemento di indiretta ricattabilità da parte delle forze maggiori e di ormai consuetudinaria orbita gravitazionale acquisita da parte di quei cespugli moderati che, senza un accordo di governo con quello che proprio non è più sinistra, non riescono a stare, ad immaginarsi, a perpetuarsi stancamente.
Ecco dove manca la progettualità nella sinistra moderata che si abbarbica al centro del PD e alla fase contiana del Movimento 5 Stelle: manca proprio nell’assenza di una autonomia che diventi indipendenza politica e organizzativa e che provi a scardinare quel bipolarismo imperfettissimo che un po’ tutti fingiamo ancora di considerare come espressione ineludibile di una legge elettorale tuttavia modificata nel tempo.
Non che la sinistra di alternativa si renda particolarmente allettante come alleata per una prospettiva di governo comune. La frammentazione delle forze comuniste è una atomizzazione imbarazzante nello scenario confuso della politica italiana.
Nessun settore parlamentare se la passa egregiamente. Tanto meno il grande carrozzone della maggioranza di unità nazionale draghiana. E tanto meno Draghi stesso. Ma i tentativi fatti tanto da Sinistra Italiana quanto da Rifondazione Comunista di unificare, ciascuna nel loro ambito di pertinenza politica e nella loro area di attrazione anche sociale, sono clamorosamente falliti fino ad oggi perché mancano i fondamentali: non esiste la volontà, prima di ogni altra cosa, di progettare una sinistra di governo e di lotta che abbandoni il settarismo isolazionista da un lato e il moderatismo governista a tutti i costi dall’altro.
Dalla logica del maggioritario occorre passare, e pensare, come se la legge elettorale fosse solamente proporzionale per mettere in connessione il vasto disagio sociale che cresce di giorni in giorno con un progetto di rappresentanza politica che recuperi i valori non negoziabili dell’anticapitalismo.
Nessuno richiede – o almeno così sembra – abiure o mutazioni nominalistiche, tanto meno ideali. Anzi, dalle diverse culture, che si sono consolidate nel tempo nel microcosmo della sinistra residuale italiana, può nascere una condivisione di contenuti molto più ampia di quella che ne verrebbe fuori se l’interpretazione dei rapporti di forza attuali fosse solamente una e fosse univoca.
A parziale discolpa della sinistra di alternativa e comunista, sempre additata come l’unica responsabile del frazionamento e delle tante sconfitte cumulate nel corso degli anni, va detto che quelle forze che hanno scelto una declinazione neo-socialdemocratica degli eventi e dei contesti socio-economici dell’oggi, non hanno ottenuto chissà quale successo nel campo autoproclamatosi “progressista“. Egemone rimane il progetto liberista, sorretto da un M5S che ha sostituito al populismo originario un istituzionalismo a tutto tondo, una correttezza formale che contraddice il pur finto ribellismo del primo periodo grillino di un movimento interclassista e trasversale.
Una concomitanza di fattori fa sì, ancora oggi, che in Italia la sinistra e il mondo ecologista non trovino una intesa e non si ritrovino attorno ad una piattaforma programmatica davvero essenziale. C’è chi guarda ancora al sovietismo, chi al movimentismo spontaneista, chi dell’ecologismo ha fatto una variabile dipendente dell’indistinguibilità ideologica ma poi finisce per allearsi con il PD; c’è poi chi ad ogni elezione sogna di andare a governare, costi quel che costi e c’è chi, come Rifondazione vive tutte le contraddizioni di queste particolari lacerazioni e rimane a metà del guado.
In Francia, invece, la storia politica del paese e i suoi sviluppi sociali hanno oggi permesso una unità cui, del resto, non si è arrivati senza dolorose scissioni (si pensi al vecchio, glorioso Partito Socialista ormai ridotto ad una appendice del mélenchonismo in queste legislative) e senza cambiamenti che abbiamo scosso anche gli storici elettorati che votavano per senso di appartenenza, per riconoscimento reciproco di interessi tutelati dalla politica e con un chiaro riferimento di classe.
L’esempio francese può esserci utile. Soprattutto se avrà successo in queste elezioni transalpine.
La necessità di una “costituente della sinistra” viaggia nelle proposte di personalità della cultura e della politica: da Angelo d’Orsi a Luigi de Magistris e incontra il favore dell’atomizzato progressismo di alternativa senza però riuscire a concretizzarsi in vista delle pure molto vicine politiche che si terranno tra un’anno. Il rischio che si corre è di sprecare ancora tempo prezioso, logorando le aspettative di comunità sempre meno dense, sempre meno partecipate, cadute nella rassegnazione (comprensibile ma comunque colpevole) di trovarsi innanzi alla fine della storia della sinistra italiana.
Se la NUPES avrà successo, se quindi riuscirà ad essere determinante per la formazione di un governo in Francia, questa sarà la migliore vittoria possibile anche per le altre sinistre europee che oggi, davanti ad una nuova fase imperialista del capitalismo, sostenuta dal cinismo bellico e dagli interessi dei singoli governi, non trovano quel trampolino di lancio per rimettersi in gioco oltre l’autoreferenzialismo e oltre la spasmodica voglia di governismo che, proprio per obbedire ad un mortificante istinto di autoconservazione, prescinde da qualunque programma veramente alternativo, veramente progressista, veramente di sinistra.
MARCO SFERINI
12 giugno 2022
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