Il vero piano di pace di Trump: l’assalto imperiale all’Asia

Ad un mese dal suo reinsediamento alla Casa Bianca, Donald Trump rende sempre più chiaro il soggetto composito del quadro di geopolitica internazionale della nuova amministrazione sotto il segno...

Ad un mese dal suo reinsediamento alla Casa Bianca, Donald Trump rende sempre più chiaro il soggetto composito del quadro di geopolitica internazionale della nuova amministrazione sotto il segno dell’acronimo MAGA. Fare nuovamente grande l’America a stelle e strisce vuol dire, in questo frangente, ridurre al minimo le contraddizioni che si sono aperte in varie zone del pianeta e che mettono, non per poco conto, Washington nella condizione di spendere molto, trarne pochissimi profitti sul piano meramente imperialistico (economico e militare al tempo stesso) e, pertanto, essere soggetto ed oggetto contemporaneamente di una distrazione dai vari obiettivi che il presidente magnate si pone.

L’accelerazione imposta all’apertura di eventuali (perché siamo ancora nella casella delle eventualità…) trattative tra Stati Uniti e Russia in merito alla guerra in Ucraina è la conferma prima di questa impostazione: tre anni di conflitto hanno logorato Kiev, costretto l’Europa ad un ruolo subalterno rispetto alla prepotenza della NATO (sostenuta a tutto tondo dall’amministrazione democratica di Biden e Harris), rendendola eufemisticamente marginale. L’asse Trump-Putin è supportato da una comune interpretazione del potere in chiave oligarchica: per il resto esistono molte differenze tra i due presidenti, a cominciare dalla contesa mondiale: da un lato l’unipolarismo preteso dalla Repubblica stellata, dall’altro il multipolarismo concepito anche dai BRICS.

C’è, in sostanza, uno sganciamento statunitense nei confronti dell’Unione Europea che – lo afferma con nettezza e senza alcun giro di parole il nuovo Segretario alla Difesa americano Pete Hegseth – viene lasciata quindi da sola ad affrontare una fase del tutto nuova e che riguarda i rapporti multilaterali con la Russia che le è direttamente prossima, con la Cina, l’India e con un Medio Oriente tutt’ora in fiamme. Non di meno, però, anche con i nuovi Stati Uniti d’America a trazione ipercapitalista e liberistissimi in cui il sistema economico si è direttamente istituzionalizzato, senza più alcuna mediazione, senza interposizione di niente e nessuno. La figura paterna di Elon Musk nello studio ovale della Casa Bianca ne è la plastica, lapalissiana dimostrazione.

Kiev, in tutto ciò, viene considerata come attore comprimario: chi decide sono Washington e Mosca. Volodymyr Zelens’kyj viene “informato” da Donald Trump che lo mette al corrente della telefonata avuta con Putin e nella quale ha discusso praticamente di tutti i dossier aperti sui tavoli delle cancellerie di mezzo mondo. Il Grande Paese ha ora bisogno di concentrarsi sui problemi asiatici e tiene un piede ben fermo in quell’Europa che gli serve come ponte di collegamento con tutte le problematiche che esistono al di là del Bosforo: dalla guerra di Gaza al problema dell’emersione della galassia di interessi cinesi. Da quelli prettamente economici e finanziari a quelli di una geopolitica che si affaccia sul Pacifico meridionale.

L’allegerimento dell’impegno strategico nel Vecchio Continente è, quindi, del tutto logico nella visione neoimperialista del trumpismo che vuole competere su molti altri più fronti oltre a quello meramente militare su cui più pervicacemente insistono Putin e Netanyahu, seppure con motivazioni profondamente diverse così come lo sono i tragici ambiti di guerra che alimentano. L’espansionismo della NATO verso Est ha provocato la reazione russa verso Ovest. L’orrore causato da Hamas il 7 ottobre 2023 ha permesso al governo ipersionista delle destre fanatiche israeliane di scatenarsi nel progetto espansionista del Grande Israele. Ma la sorpresa di questi giorni è la dichiarazione, sempre di Trump, di volersi in qualche modo prendere Gaza per farne un resort mediorientale di tutto lusso.

Appena reinsediato, Trump ha dichiarato a Capitol Hill, nel discorso inaugurale della sua seconda presidenza, che gli Stati Uniti puntavano d’ora in avanti a fare del nordamerica il loro primo obiettivo di espansione, di annessione di nuovi territori: una pretesa, se ci si riferisce a Panama e alla Groenlandia; un auspicio se si parla del Canada. Fatto sta che il sogno del MAGA, su questo versante, e colorare a stelle e strisce un territorio che va dal Polo Nord fino al Messico. Si parla qui di un dominio emisferiale, di una presenza di Washington oltre i confini storici ben saldi: quarantotto stati con continuità territoriale e l’Alaska a nord diventerebbero la tenaglia entro cui comprendere Ottawa e la grande isola di proprietà danese.

Il progetto di dominio unipolare del mondo è per ora tramontato. Dunque, la risposta di Trump (e di Musk che guarda sempre a Marte) è la geolocalizzazione imperiale in una parte ben precisa del pianeta e, con essa, il mettere termine alla guerra d’Ucraina permetterà così di puntare con più risorse verso la zona strategica del Pacifico: proprio lì dove la Cina insiste con un evidente presenza navale intorno a Taiwan. Del resto, mica è un mistero il fatto che Pechino intenda, proprio in questo 2025, rinegoziare i rapporti con l’America di Trump. Si accorciano le distanze su un tema che per Musk è dirimente: quello di uno sviluppo dell’intelligenza artificiale come pietra angolare di una nuova era del capitalismo mondiale.

Rapporti commerciali, politici, gestione delle imprese, piccola e grande economia, media e alta finanza, regolamentazione dei diritti e dei doveri, tutto passerà per una attualizzazione dettata da una agenda in cui il profitto sarà oltre che il regolatore unico anche l’ispiratore di un modello etico fondato sull’espansione del virtuale a discapito del reale, compresso, ostacolato nella vera partecipazione di massa, individualizzando tutto e tutti e atomizzando quindi le reti sociali, disfacendo il tessuto democratico tanto delle comunità quanto dell’interezza più istituzionale della grande Repubblica stellata.

Tra Marte e Asia da conquistare, Pete Hegseth non ha dubbi in merito al destino del Vecchio Continente: l’Unione dovrà badare a sé stessa mettendo in piedi una sorta di “difesa convenzionale”, visto che – letterale – «gli Usa non sono più focalizzati principalmente sulla sicurezza dell’Europa». Se si prende una carta geopolitica dell’oggi che analizzi le massime spinte di pressione statunitense, si vedrà con chiarezza che, oltre alle mire espansioniste della NATO sempre verso l’Est europeo, la nuova amministrazione trumpiana punta a sfondare su una linea di attuale contenimento dell’espansionismo cinese ed asiatico in generale.

I punti di interesse strategico riguardano il Golfo di Aden (dove imperversano le azioni degli Houthi), quello Persico (dove permane la minaccia iraniana), naturalmente il mare della Cina meridionale con il rebus di Taiwan e, infine, più a nord la questione coreana. Ne esce fuori una declinazione confusa di un multipolarismo in cui non esiste più, per l’appunto, una sola linea di demarcazione tra est ed ovest, tra nord e sud del mondo, ma una commistione di interessi che non seguono soltanto un asse portante dello sviluppo, ma una pluralità di intersezioni che scombinano vicendevolmente le carte. L’ordine mondiale in quanto tale è un precetto concettuale ormai archiviabile. Non ne esiste uno nuovo: si è innanzi ad una ineguale trasformazione dei poli di concentrazione del capitale.

Tutto questo non fa che determinare uno squilibrio che, proprio perché così è, non è gestibile da un solo angolo del pianeta, come pretenderebbero Trump, Musk o il compartecipante Milei. La rielezione del magnate alla Casa Bianca è, propagandisticamente, un recupero del sogno americano della grandezza onnipotente (tutt’altro che liberale e democratica), ma nasconde, o per meglio dire ha come reale proposito, la mitigazione di una crisi verticale del modello a stelle e strisce: quell’unipolarismo di cui spesso si fa cenno, è il protagonista di questa conversione al sovranismo autarchicheggiante, ad una favola del mito statunitense come faro della civiltà moderna globale. I fronti di guerra che si sono moltiplicati non hanno fatto che confermare la crisi dell’egemonia americana nel mondo.

La guerra in Ucraina è, tra tutte, quella che meglio ha significato da un lato l’estremo tentativo di mettersi a ridosso dell’Eurasia come porta verso l’Asia stessa per evitare una egemonizzazione russa della nuova via della Seta; dall’altro ha confermato proprio gli intenti di Putin: un sogno neozarista che, tuttavia, ha l’evidente scusa del contenimento dell’imperialismo nordatlantico per affermare il proprio verso un Est europeo in cui gli Stati Uniti e l’Alleanza hanno messo piede sconvolgendo quelle che erano le eredità di un equilibrismo postbellico a far data dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Se ci si trovi o meno al principio di un serio percorso di trattative, dettate da una indubbia eterogenesi dei fini (proprio perché si gioca su un terreno multilivellare), è presto per dirlo: ma non c’è discrezionalità che tenga. L’irruenza trumpiana sullo scenario mondiale è un dato di fatto. Il disimpegno americano in Ucraina, comunque, non è una novità di queste settimane. Stava nel programma elettorale del magnate ed è, come già scritto, parte di un progetto di ampio raggio: non c’è nessun interesse umanitario in tutti questi meschini calcoli di cinismo del potere per il potere. Si afferma sempre e soltanto la logica dell’egemonia, del sopravanzamento a discapito di una comunque rilevante parte del mondo in cui oltre due miliardi e mezzo di salariati sono costretti a sopravvivere in condizioni sempre più povere.

Il trumpismo è quintessenza politica e strategica di una interpretazione estrema del neoliberismo portata alle conseguenze più devastanti. Ciò che va in senso contrario rispetto alle precedenti, ipocrite, politiche di contenimento del disastro anti-ecologico globale, Trump lo fa senza mezzi termini: fosse anche per lanciare continuamente messaggi al popolo americano di proseguire sulla via che ha deciso di marcare con nettezza. A partire pure dalle cannucce di plastica che ora dovrebbero sostituire quelle di carta… La miseria della politica e la crisi di una economia di sistema in un sorso solo.

MARCO SFERINI

13 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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