L’omologazione alla ideologia dominante alla base di questa brutta storia
E’ un vero peccato che lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena sia esploso in campagna elettorale. Perché all’attacco forsennato e scomposto della destra, il Pd risponde con tesi difensive, di presa di distanza o giustificative, che impediscono quella profonda riflessione autocritica che la vicenda imporrebbe e che, c’è da sperare, possa essere ripresa dopo le elezioni.
Nella posizione attuale della dirigenza del Pd prevale, anzi è esclusiva, una tendenza alla “personalizzazione” delle responsabilità, funzionale, in qualche caso, alla lotta politica interna tra le componenti di quel partito. Si sostengono tesi banali e indifendibili, come il fatto che lo scandalo sarebbe da attribuire a colpe esclusive del vecchio management, fingendo di ignorare che le “nomine” della Fondazione che decideva dei manager, era tutte “ politiche” e rigidamente lottizzate nell’ambito di un tradizionale accordo di maggioranza tra ex comunisti e ex sinistra democristiana. Si sostiene che “il Pd nazionale non c’entra”, come se quello senese e quello di Roma fossero due partiti diversi e incomunicanti; si sostiene, a più bassa voce infine, che è uno scandalo “d’alemiano”, poiché era D’Alema il referente privilegiato della banca e del partito senese.
A modesto giudizio di chi scrive, la critica da fare e che sovrasta le altre, chiama in causa non questioni di natura etica o giuridica personali o di gruppo (naturalmente anche quelle), ma di carattere prettamente politico.
Le strutture mutualistiche e sociali del movimento operaio (cooperative, società operaie e più tardi, come loro ulteriore sviluppo nell’esperienza italiana, assicurazioni, istituti di credito ecc.) nascono con un intento di comunanza, tutela e promozione della condizione della classe lavoratrice e del popolo e di difesa dalla inaccessibilità e dalle intemperanze del mercato. A questa concezione, nel secondo dopoguerra, il Pci e la sinistra aggiungono, come strategia per la conquista del potere, l’idea che debba e possa vivere, nella società, una “società” parallela alternativa la quale, mano a mano espandendosi nella prima, finisca per diventarla essa stessa o comunque per esserne componente egemonica. Credo che Palmiro Togliatti avesse ben chiaro fin dall’inizio che quella che venne definita la strategia delle riforme di struttura comportasse il pericolo che l’accesso ai gangli del potere economico e politico provocasse non il cambiamento di questi ultimi, ma il “corrompimento” del movimento. Quale era l’arma di difesa, immaginata e concepita all’epoca? Erano i valori e le regole di una ideologia e di un partito che avrebbero dovuto costituire un argine insormontabile a difesa dell’etica e del costume, come era allora chiamato, o della diversità, come fu più tardi intesa, della sinistra. Per chi ha buona memoria o ha letto i libri di storia, la cosiddetta “doppiezza” togliattiana era proprio questo: pragmatismo politico e intransigenza nei principi.
A chi, dentro le formazioni succedute allo scioglimento del Pci, cioè il Pds, i Ds e anche il Pd, ha sempre, più o meno tacitamente, amato presentarsi, in una continuità storica, come l’erede del “metodo” togliattiano (si, in questo caso proprio D’Alema), va ricordato che questo binomio funziona finche è tale, ma quando viene meno la saldezza dei principi il solo pragmatismo diventa pura disinvoltura e spregiudicatezza che conduce alla omologazione con i peggiori sistemi. Ed è esattamente quello che è accaduto nella vicenda del Monte, come era già accaduto in quella di Unipol. La caduta di una visione critica della realtà esistente, la progressiva e, alla fine, sostanzialmente integrale omologazione ai dettami del credo liberal liberista, l’inseguimento di una insensata americanizzazione del sistema politico italiano ha condotto, tra gli altri effetti, alla costituzione di un ceto di amministratori pubblici e, nel caso delle “partecipate” o degli istituti economici, di tecnocrazie autoreferenti delegati a gestire sistemi di potere, che hanno instaurato un rapporto di supremazia sulla politica e sul partito o meglio, su quel che resta del partito.
A questo proposito è curioso notare come anche questa vicenda costituisca nuovo motivo di agitazione contro “i partiti”. Tant’è che viene sollevata, come scandalo nello scandalo, una pratica meritoria del passato che connotava i partiti della sinistra: e cioè che gli eletti fossero obbligati a corrispondere al partito una quota della loro indennità per finanziare la vita stessa del partito e nello stesso tempo diminuire la “distanza” tra trattamento degli eletti ed elettori.
Il paradosso è che anche questa storia, invece, paga un prezzo decisivo al dissolvimento o alla inesistenza attuale dei partiti. Essi, e anche questo dovrebbe costituire materia di riflessione, sono stati soppiantati da sistemi di potere che, nel caso degli eredi dell’ex Pci, applicano, per dirla con una battuta, metodi staliniani per promuovere politiche liberiste.
LEONARDO CAPONI