E’ una questione di libertà. Una libertà che si vede, un’altra che si fa fatica a vedere. Silvia Romano ha dichiarato che per lei “il velo è un simbolo di libertà“, che viene da dio, da una fede che le ha dato serenità e anche la forza per affrontare le prove che ha dovuto sostenere e che metterebbero tutti nella condizione di affidarsi a qualunque speranza, come ad un punto fermo cui guardare per intravedere un futuro.
Non credo sia l’abito a determinare il grado di libertà di un popolo. Altrimenti dovremmo pensare che laddove gli abiti sono più corti vi è sempre maggiore emancipazione femminile e sempre meno maschilismo o repressione patriarcale e viceversa. Invece, ogni anno elenchiamo, giorno per giorno, tutte le donne che vengono uccise dagli uomini pur senza portare il velo.
E’ un problema di relazioni umane e civili, di cultura influenzata ovviamente dai rapporti sociali che si determinano in un contesto ben preciso.
La minigonna veniva e viene assunta da molti maschi (generealizziamo, quindi rendiamocene conto partendo dal genere maschile per stigmatizzare il tutto) come alibi che giustifichi la molestia nei confronti della donna stessa: un po’ come il “maccarone” di Alberto Sordi. Non cerca nessuno, ma – dai tempi di Esopo e della volpe e l’uva – qualcuno trova sempre un pretesto per avventarsi su lui, per divorarlo.
Così l’uomo, il maschio in questo frangente, cerca un elemento su cui fare leva per esprimere pulsioni insopprimibili, oppure per rendere in qualche modo accettabili sorpassi di confine del lecito e dell’illecito, dell’intromissione nella altrui libertà.
Così accade, di contro, per il velo cosiddetto “islamico“. Ne esistono, proprio come le minigonne, molti tipi: da quello meno “invasivo” e coprente, il “nijab“, passando per il “chador” che copre anche le spalle ma lascia scoperto il viso, arrivando al “nikab” che copre tutto tranne gli occhi, fino al più noto “burka” che ci riporta, come prima immagine, alla mente le donne afghane, l’ultima guerra al terrorismo di Bin Laden e a tutti i gruppi estremisti del “jihad“.
Una donna può sentirsi oggetto di sguardi tanto con una minigonna cortissima o una scollatura che mette in rilievo le curve dei seni quanto avvolta da un velo: nel primo caso gli sguardi sono ammirazione estetica (nella migliore delle intenzioni) e di desiderio (nella giustificabile delle intenzioni), oppure di aperta molestia dovuta alla fissità insistente dell’osservante…; nel secondo caso sono frutto per la maggiore di pregiudizi, di giudizi, di stupore.
Sono sguardi dall’alto verso il basso: da presunta cultura superiore ed emancipata a presunta cultura inferiore…
Eppure, basterebbe leggere “Le Mille e una notte” per spaziare nella meraviglia orientale, nei racconti di Sherazade dove i veli non mancano, anzi si sovrappongono gli uni agli altri, volteggiano nelle splendide danze davanti a sultani ed emiri in variopinte tende, tra mille avventure che hanno fatto sognare generazioni di ragazzi e anche di adulti.
Ma gli stereotipi, come i pregiudizi, sono duri a morire. Forse dovremmo riflettere sulla differenza culturale così come facciamo quando ascoltiamo un’altra lingua: anche le nostre parole sono vestiti e ci qualificano. Gli abiti peggiori li hanno non le donne che mettono una gonna corta o un chador, ma tutti coloro che si imbardano di preconcetti e che non fanno altro che cenciarsi di paura, di disprezzo, di odio.
(m.s.)
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