Tra i pericoli che minacciano l’umanità, la mancanza di curiosità intellettuale è una delle più insidiosi. Insieme al conformismo, che si alimenta sia di timore sia di egoismo, la tendenza a non farsi troppe domande e a lasciarsi andare con la corrente produce un certo tipo di stolidità con cui abbiamo a che fare un po’ ovunque – sui giornali, in tv, nei social.

Di fronte a una tragedia come quella che si sta consumando a Gaza, la mancanza di curiosità intellettuale è particolarmente grave, perché contribuisce a generare una forma di insensibilità morale che spinge molti a ignorare una sistematica violazione del diritto internazionale che si sta consumando sotto i nostri occhi.

Non informarsi, non cercare di comprendere le ragioni delle vittime (di tutte le vittime), ci spinge ogni giorno più vicini a un baratro nel quale finiremo per precipitare. Per questo dobbiamo essere grati agli studenti che stanno manifestando nelle università statunitensi e europee.

Le loro azioni non violente di disobbedienza civile sono un appello rivolto non solo alla nostra coscienza, ma anche al nostro senso di giustizia. Gesti che, in un regime democratico, hanno un valore inestimabile.

Colpisce che in prima fila, tra coloro che praticano questo tipo di stolidità, spesso menandone vanto, sono intellettuali che si ergono a difensori del liberalismo. Eppure, dovrebbero essere proprio i liberali a riconoscere che il modo in cui gli studenti stanno mettendo in atto la propria protesta ha tutte le caratteristiche di un atto politico che si rivolge alla maggioranza di governo, ed è giustificato da principi di giustizia che trovano nelle costituzioni dei paesi democratici la propria formulazione giuridica.

L’eguale rispetto per ciascuno, il riconoscimento e la tutela della dignità personale e della sicurezza di tutti, l’osservanza del diritto internazionale, non sono patrimonio soltanto di una parte, ma dovrebbero essere valori condivisi dall’intera cittadinanza.

A dircelo sono stati alcuni dei pensatori più significativi del liberalismo contemporaneo, da John Rawls a Ronald Dworkin, e anche una delle coscienze critiche più lucide della cultura ebraica del Novecento, Hannah Arendt. Le occasioni che spinsero questi autori a riflettere sulla disobbedienza civile furono l’ascesa del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, nel quale si impegnarono anche molti studenti, e poi le proteste contro la guerra in Vietnam, che ebbero origine proprio nelle università.

Anche allora chi invocava la repressione delle proteste si presentava come un difensore della legge e dell’ordine, contro dimostranti che, occupando le sedi universitarie, stavano violando il diritto di proprietà. Per confutare questa concezione ristretta del diritto e della libertà (che non si riduce al diritto di proprietà) John Rawls difendeva la disobbedienza civile come “atto pubblico”. Non solo perché esso avviene in pubblico, ma anche perché richiama principi pubblici, in quanto non ha una motivazione legata al tornaconto personale.

Chi attua queste forme di protesta mette anzi a repentaglio il proprio interesse, esponendosi a un intervento violento da parte delle forze dell’ordine e al rischio di incorrere in sanzioni di vario tipo: penale, amministrativo, o sociale (negli Stati Uniti i difensori dell’ordine invitano i futuri datori di lavoro a non considerare gli studenti che hanno preso parte alle proteste come candidati per un impiego).

Per Rawls, la disobbedienza civile «si può paragonare al discorso pubblico, ed essendo una forma di appello politico, un’espressione di una convinzione politica profonda e consapevole, ha luogo in sede pubblica». Perciò deve essere non violenta, e le proteste studentesche lo sono.

Astenersi dalla violenza è infatti il modo in cui chi protesta, nel momento in cui sta violando una regola, riafferma il proprio rispetto per il diritto nel suo complesso, che non ammette violenze private, e restringe l’uso della forza da parte dei tutori dell’ordine solo ai casi in cui essa sia necessaria per difendere valori fondamentali e entro limiti che sono definiti in modo tassativo.

Quella posta dagli atti di disobbedienza civile è, per Rawls, «una prova cruciale per qualunque teoria delle basi morali della democrazia». Nei prossimi giorni saremo chiamati tutti, ciascuno nel proprio ruolo come cittadino, e alcuni di noi come educatori, a mostrare di essere all’altezza di questa sfida.

MARIO RICCIARDI

da il manifesto.it

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