Il trucco c’era e si vede: fine della retorica bellicista europea

Nel corso dei tre anni di guerra in Ucraina, l’Unione Europea ha speso all’incirca il doppio degli Stati Uniti d’America, guidati da Joe Biden, per rifornire Kiev di armamenti...

Nel corso dei tre anni di guerra in Ucraina, l’Unione Europea ha speso all’incirca il doppio degli Stati Uniti d’America, guidati da Joe Biden, per rifornire Kiev di armamenti leggeri e pesanti. La rincorsa alla linea del rigore e della rigidità assoluta, dell’indefesso patto con la NATO nella difesa senza se e senza del fronte aperto dall’invasione russa prima a nord e poi a sud-est, appare oggi, alla luce della svolta trumpiana, una prova di muscolarità per quella che non è una superpotenza e che, a ben vedere, nemmeno è una potenza tra le nuove centrali del multipolarismo.

Da un lato la grande Repubblica stellata riconvertita al ruolo di ditta patronimica dal ritorno alla Casa Bianca del magnate, affiancato dal guru più spaziale che vi sia; dall’altro l’impero del grande Drago che possiede buona parte del debito pubblico statunitense, che ha messo le mani su gran parte degli affari africani, che ha aperto la nuova via della seta con l’Europa e che, quindi, ha tutte le caratteristiche per giganteggiare e primeggiare entro tanto la cornice dei BRICS così come nel più variegato e complesso scenario globale.

Trump spariglia le carte, non c’è dubbio. Sente al telefono Putin, taglia fuori Bruxelles, tratta la NATO stessa come una armeria di cui servirsi ma su fronti differenti rispetto a quelli europei e, così facendo, non fa mistero delle carte che sta giocando in politica estera: spostare l’attenzione di Washington dalle guerre di logoramento a quelle tatticheggiate, come per esempio a Taiwan e in Corea, dove si gioca la partita del controllo di una ampia zona del Pacifico che per gli USA è da sempre un grande lago oceanico su cui mettere o rimettere mani e piedi.

E Kiev? Volodymyr Zelens’kyj viene “informato” dei fatti. I futuri colloqui di pace sono preimpostati per essere tenuti nel solco del bilateralismo tra Stati Uniti e Russia. Niente di più e niente di meno. Tutti gli altri vengono fatti da parte: Mosca umilia l’Unione Europea, Trump mostra di dare compimento alla sua enorme promessa di fungere da pacificatore del mondo intero, mentre la Cina osserva e si compiace che si stia aprendo la strada ad una via d’uscita dal conflitto. Mosca, del resto, si trova attualmente – e da molti mesi – in una posizione particolarmente favorita sul piano militare.

L’offensiva nel Donbass prosegue, il fronte avanza lentamente, ma avanza. Le armi per gli ucraini scarseggiano, le truppe sono fiacche e Pete Hegseth, segretario americano alla Difesa, ha escluso che Kiev possa, oggi come nel futuro, entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica. Tutto un impianto e tutta una narrazione europea volta a fare dell’Ucraina il bastione democratico contro il solo imperialismo che si è tentato di far vedere (per occultare quello della NATO verso Est), oggi crolla miseramente: il paese è letteralmente a pezzi, mentre il rosario di sanzioni recitato contro Mosca non sortisce soprattutto oggi l’effetto sperato.

La telefonata tra Trump e Putin fa volare le borse russe e già si preannuncia un possibile abboccamento tra i due presidenti magari nel terreno pseudo-neutro dell’Arabia Saudita. Ma di Zelens’kyj in tutto questo processo di avvicinamento delle posizioni non vi è traccia. Di sicuro si registra il fatto che la dipintura del Satana comune, del Putin come unico male del mondo si è rivelata una ennesima impostura di un Occidente che, a guida democratica, ha servito meglio di chiunque altro l’imperialismo nordamericano ed europeo.

Il risultato è la scomposizione dei Ventisette: all’interno della UE soffia il vento di destra che più destra non si può, mentre il macronismo è ai minimi storici e la Germania si appresta ad un voto politico tutt’altro che rassicurante nel merito della questione qui in scrittura. Sono le evidenze, alla fine, che delineano i contorni e i tratti delle politiche internazionali: vince la Russia, perde Zelens’kyj, cui si prospetta il fantasma di un voto presidenziale e parlamentare postbellico in cui le pressioni di Mosca, c’è da giurarci, si faranno sentire.

Quello che francamente colpisce davvero molto è l’inadeguatezza delle istituzioni europee che, proprio nel momento in cui si arriva, col colpo di coda del presidente americano, alle soglie della trattativa per la fine o, quanto meno, la sospensione delle ostilità, non riescono a sintetizzare una posizione unica, mostrando quanto sia lontano non solo un progetto di unità europea declinata nella formula dello “Stato federale” (almeno per chi ha propagandato e sognato gli “Stati Uniti d’Europa“…), ma soprattutto quanto sia ancora difficile creare le premesse per delle politiche davvero comuni.

Di comune rimane solamente l’Euro. Una moneta. Non è poco in un regime capitalistico a cui si è votato il progetto dell’Unione, ma è pur sempre insufficiente se si pensa che le altre divise sono tali perché esiste anzitutto un potere centrale che le determina come merce di scambio e valore assoluto sul piano internazionale. Non viceversa. Se l’Euro è l’unica ragione per cui l’Europa di Bruxelles, Francoforte e Strasburgo rimane arlecchinescamente in piedi, non si può trascurare la critica che porta a considerare qualcosa di più della mera fragilità storica di un continente segnato dalle guerre intestine e dalle reciproche sopraffazioni.

Trump coglie questo elemento strutturale e ne approfitta per spostare l’asse di interesse americano da quella che, opportunisticamente, considera una irrilevanza, una trascurabilità: quell’Europa che i liberisti propugnatori delle finzioni democratiche di governo ci hanno spacciato come elemento di mediazione tra Ovest ed Est proprio in questi ultimi tre anni di guerra. I ministri degli esteri europei cercano di cogliere qualche pro, a fronte dei tanti contro che possono con tutta evidenza leggere nella mossa di Trump: tra questi c’è il famigerato – e pare scongiurato – “accordo segreto” tra Washington e Mosca.

In realtà molto è sicuramente già stato fatto alle spalle tanto dell’Europa quanto dell’Ucraina, nonostante in campagna elettorale il magnate avesse apertis verbis dichiarato che l’uomo della pace era lui e lui soltanto. Convitato tutt’altro che di pietra è la dimostrazione della forza: due uomini forti che si confrontano e si parlano, trascurando i giudizi etico-politici sul grado di tirannia dell’uno e dell’altro. C’è indubbiamente dello snobismo nei riguardi di un liberalismo europeo, molto simile a quello bideniano, che pensa di poter far valere la forma unitamente alla sostanza. Trump e Putin surclassano il tutto.

Lo fanno nel nome di una realpolitik moderna che sbeffeggia il galateo istituzionale, oltrepassa le regole internazionali e, del resto, non da oggi: visto che le guerre sono infrazione del diritto, sono alterazione del rispetto reciproco. Vale tanto per la guerra del Donbass come per quella combattuta negli altri oblast ucraini. E vale anche per Hamas e, soprattutto, per Israele che si picca di essere una repubblica democratica e che sogna una nuova nakba per il popolo palestinese, un esilio permanente, una cacciata da una terra multietnica, multiculturale e multireligiosa.

La ragione economica e finanziaria prevale così come prevede la connotazione liberista del capitalismo di ieri e di oggi. Il multipolarismo è, in fin dei conti, la concretizzazione di una serie di aspirazioni al dominio globale che partono da diverse neopolarizzazioni (Russia, Cina, India…) che contemplano molti Stati emergenti (o riemergenti) ma non il conglomerato apparentemente confederativo e forte rappresentato dall’Unione Europea. La nuova parola d’ordine, che è piuttosto inflazionata perché è per primo Trump a farne sfoggio, è “terre rare“. Tutto (o quasi) ruota attorno a diciassette elementi chimici della tavola periodica.

Diciassette interessi economici che, guarda caso, nel Donbass sono presenti in vasta misura. L’80% delle risorse naturali ucraine, guarda caso, si trova negli oblast occupati dai russi. Petrolio, gas, minerali… Il bacino del Dnepr custodisce 2,26 miliardi di tonnellate di riserve di manganese, la più grande quantità in Europa… Gli interessi non mancano. Come non mancavano ai tempi delle famigerate guerre contro il terrorismo islamista, l’occupazione infruttuosa (ma solo politicamente) dell’Afghanistan, quella dell’Iraq e i tanti presidi imperiali messi a guardia delle sommosse africane. La Somalia ne sa qualcosa…

L’Ucraina, dunque, al centro di questa spartizione di sottosuolo prezioso, paga il prezzo degli imperialismi che si sono confrontati e scontrati nel nome di finti nazionalismi, di altrettanto finte difese di princìpi e valori democratici occidentali: la partita era e rimane il posizionamento geopolitico nel nome della contesa mondiale nel multipolarismo ipermoderno e per accaparrarsi quanto di prezioso vi è sotto la linea del fronte che va dal Donbass fino quasi ad Odessa. Per Putin è l’occasione di mettere mano sull’intera Ucraina senza dover adoperare le armi in una guerra ancora lunghissima.

Per Trump è il modo di dimostrare coerenza politica, piena soddisfazione delle premesse e delle promesse elettorali, ed al contempo sbarazzarsi di una spina nel fianco che gli impedisce di concentrare la sua offensiva nei confronti dell’Asia e dell’area indo-pacifica in quella che gli studiosi sempre attenti di “Limes” hanno chiamato la “proiezione americana” nell’oceano battezzato da Magellano con un nome che oggi suona davvero piuttosto beffardo. L’Europa rimane a guardare, spiazzata, scoordinata. Il governo Meloni tace, mentre Parigi e Berlino provano a sistemare qualche parola di comune accordo.

Tre anni fa c’era chi veniva sbeffeggiato per aver, purtroppo, previsto uno scenario come quella che si sta avverando. Non si tratta qui di rivendicare chissà quale sorta di primordiale, atavica coerenza. Tutt’altro. Nemmeno alla preveggenza si può attribuire una sorta di pensiero magico capace di leggere il futuro prossimo. Era piuttosto chiaro che lo scontro, nella guerra d’Ucraina, avveniva perché la NATO da un lato si era spinta troppo ad Est, a ridosso dei confini russi, e perché Putin voleva assicurarsi che Kiev non diventasse il cuneo dell’Alleanza conficcato nel territorio della sua Federazione.

Limitrofo, congiunto a questo scopo vi era, senza tema di smentita, la volontà di appropriarsi di nuovi posizionamenti geostrategici e di una serie di ricchezze minerarie, oltre che nucleari (la battaglia attorno alla centrale nucleare di Zaporižžja non è ancora finita). Chi sosteneva che l’invio di armi servisse a garantire la libertà del popolo ucraino ora potrà in qualche maniera convincersi che l’ipocrita narrazione occidentale era un costrutto ideologico per nascondere i veri obiettivi del conflitto. Putin, dal suo canto, ha fatto ricorso ad un patriottismo dal retrogusto di grande guerra patriottica contro il neonazismo del governo di Kiev. Un tantino esagerato… ma i battaglioni azoviani qualche svastica la mostravano, oltre al sole nero.

Dopo più di mille giorni di una guerra non ancora terminata, rimangono sul terreno i cadaveri di centinaia di migliaia di soldati, di tanti civili, di innocenti che niente avevano a che fare con queste lotte di potere per il potere stesso. La spregiudicatezza degli imperialismi, del resto, non si può pretendere di fermarla solo con affermazioni di principio. Ma le armi dati a Kiev non sono servite a quello scopo: fermare una tirannia per affermare la pienezza dei valori liberali, democratici e civili dell’Occidente. Due facce della stessa medaglia. O quasi.

MARCO SFERINI

14 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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