Poiché questa società non è fondata sull’autogoverno dei popoli, sulla federazione dei liberi produttori associati e nemmeno contempla la diversità reciproca come elemento caratterizzante e ricchezza tanto singola quanto collettiva, le leggi sono d’obbligo se si vuole affermare un principio. Sarebbe meglio dire “imporlo” per poterlo affermare, perché dietro al paravento democratico che esige il rispetto della libertà formale in quanto a diritti sociali e civili sono sedimentate cataste di pregiudizi e di precostituzioni anti-ideali e anti-culturali: negazioni delle evidenze, della natura e della naturalità di tutto ciò che vive spontaneamente e che non è creato artificialmente in un laboratorio.
Al tempo della proposta di legge contro il negazionismo dell’Olocausto e, in generale, dei crimini nazifascisti (sia in Italia che nel resto d’Europa), mi venne da scuotere la testa. Che ingenuo! Pensavo che non ve ne fosse bisogno per un punto di principio. Mi dicevo e mi urlavo addosso: «Libera, spontanea conoscenza, cultura, sapere, memoria: dalla scuola ai giovani, dalla televisione ai giornali, dai libri a Internet per tutte e tutti e non l’obbligo, il dettame giuridico, legislativo per avere consapevolezza dell’orrore, dei crimini delle camicie brune e nere, delle SS, delle Einsatzgruppen…». Mi sbagliavo.
Pensavo che potesse esistere ancora un’eredità del passato che avesse ormai conquistato da tempo il diritto incontrovertibile ad essere oltre a “verità storica” (quindi fondata sui fatti) anche una diffusa ed egemone coscienza civile, civica, morale e sociale sia di quanto avvenuto nel corso della Seconda guerra mondiale e quasi vent’anni prima tanto in Germania quanto in Italia. Per questo, imporre per legge la memoria mi pareva fare un torto alla memoria stessa, costringendola a mostrarsi per quel che era, per delle sembianze che erano e sono sostanza dell’evidenza. Ciò che è evidente non andrebbe – in teoria – nemmeno spiegato.
Facevo conto su una oggettività che poggiava sul metodo storico, su ricerche e produzioni di una letteratura dell’annichilimento dei diritti sociali e civili, di quelli più elementarmente umani sanciti fin dagli albori della Rivoluzione francese, che aveva versato fiumi di analisi andando a studiare nei più profondi anfratti degli archivi di Stato, di quelli delle Regioni, per arrivare alla memoria singola dell’antifascista incarcerato, deportato per motivi politici, perché omosessuale, ebreo. Anche per sbaglio, ammesso che si potessero definire “giuste” le deportazioni previste dalla legge di allora, da quella fatta senza alcun parlamento veramente eletto, veramente espressione di una volontà popolare.
Quando anche si fossero mantenute le parvenze de iure di un regime parlamentare in una dittatura de facto, le leggi sarebbero state il prodotto di una distorsione della vera rappresentanza istituzionale della cittadinanza, essendo il dissenso, la critica e l’appunto praticamente interdetti dal discorso, dallo scrivere, dal dialogo quotidiano, dal dibatitto pubblico. In questo senso, la democrazia liberale garantisce le libertà civili ma ne fa delle variabili dipendenti dalla struttura economica, dalla garanzia che ogni tentativo di riforma non vada ad intaccare lo status quo delle classi dirigenti, di coloro che sono i proprietari del processo produttivo, perché sono i padroni tanto delle industrie quanto della facoltà di acquisire il lavoro altrui e sfruttarlo per tramutarlo in profitto.
Le leggi, dunque, quando non devono sottostare al doppio nodo gordiano del totalitarismo in simbiosi con gli interessi degli industriali e dell’alta finanza, rimangono espressione di una classe dominante cui poco importa il dibattito politico. Non c’è etica di alcun tipo nel calcolo dei profitti: ciò che importa è destabilizzare il quadro sociale, impedire l’unità di classe dei moderni sfruttati e lasciare che questo disagio permamente si faccia sentire in mille modi… Dall’incitamento alla xenofobia da parte di forze sovraniste che negano i presupposti storici e i fatti stessi da cui orginano i problemi sociali, fino al più becero dei revisionismi, alla costruzione di quelle “fantasie di complotto” così bene descritte nel libro di Wu Ming 1 “La Q di qompolotto“.
E’ una lettura non semplice, molto articolata e circostanziata, ma che vale la pena fare per rendersi conto di quanto sia sottovalutato il problema dell’alterazione dei fatti, della decostruzione delle verità oggettive dell’oggi sostituite con invenzioni che vengono credute perché più semplici come spiegazioni rispetto alla necessaria più lunga e articolata ricostruzione degli eventi (logici e cronologici) che porta al nostro presente.
Parafrasando Giordano Bruno, che tremenda illusione quella di sperare che una società liberista possa aderire ad un principio di avvicinamento alla verità dei fatti e rendere giustizia alla storia e alle pieghe in cui si annidano i chiaroscuri di passaggi irrisolti e che meriterebbero più approfondimenti tanto da parte degli studiosi quando da parte di una opinione pubblica che provi a capire e che non si fermi alla mera apparenza. Sarebbe un esercizio utile, davvero civico e civile, oltre che di moderna gnoseologia, per consegnare alle giovani generazioni – ma pure al resto della popolazione – una oggettività su cui fondare il rinnovamento dell’etica sociale, del patto repubblicano che è antifascismo, antiautoritarismo e tendenza alla sostanziazione di una democrazia che si discosti sempre più dall’interesse particolare per abbracciare quello comune.
Viviamo in una società che viene invece artatamente scomposta, proprio perché se ne teme il compattamento antiliberista attraverso una presa di coscienza sociale emergente sulla scorta dell’aumento esponenziale del disagio economico di vaste masse di lavoratori, di precari e di sfruttati in generale. La pandemia ha consegnato un disvalore aggiunto alla funzione perversa dei “social network“: quella del protagonismo a tutti i costi, dell’interventismo poco dannunziano e molto raffazzonato, privo di coraggio se non dietro maschere anonime che negano i fatti, che li minimizzano o che esigono, nel nome della “libertà di espressione“, il paradosso di poter ledere i diritti altrui mediante il pronunciamento di frasi, parole e aggettivi “consueti” e per questo promuovibili dal rango di “insulto” a quello di “epiteto“.
Esiste ovviamente una differenza tra il negare l’Olocausto e i tanti stermini perpetrati dai nazisti e dai fascisti e il pretendere che il Covid-19 non esista, che tutto sia il prodotto di un cospirazionismo di grandi banchieri e multimiliardari internazionali; così come esiste una differenza tra queste fantasie di complotto e l’omofobia revanchista che prentederebbe di passare per una semplice cultura popolana, antica come il mondo, persino evolutasi nel tempo, entrata nella percezione comune e quindi oggetto e soggetto persino di teatralità satireggiante.
Dalla legge per punire i negazionisti della storia a quella per evitare che si diffonda il “senso comune” della liceità di comportamenti omofobi o contro le disabilità, pretestuosamente ascrivibili alla “scherzosità“, al dileggio definito sempre e soltanto “innocente” (altrimenti come potrebbe essere tale se non con una rivendicazione di atteggiamento “naturalmente” puerile, al fanciullino che sta dentro un po’ tutti noi). Per non parlare poi del vasto ambito inerente i diritti delle donne sempre sotto accusa per essere in contrasto con questo o quel passo di un testo o di una dottrina religiosa che vorrebbero essere fonte di una morale superiore rispetto a quella laica della Repubblica (o che dovrebbe essere tale…).
Dove non arriva la coscienza individuale e collettiva deve arrivare la legge? In questa società, purtroppo sì. Non si può combattere la discriminazione dei fatti storici, quella della libertà di amare e di vivere la sessualità senza confini pregidiziali e quella della femminilità, del ruolo singolo e sociale della donna senza dotarsi, ahinoi, di normative nuove attraverso cui rinforzare una lotta per fare a meno un giorno proprio di queste stesse leggi. Potranno essere superate quando i problemi saranno superati, quando quello che si pretende di considerare come comportamento normale, scherzoso e innocente da un lato e come diritto patriarcale dall’altro, risulteranno ostici al primissimo impatto percettivo di ognuno e non supereranno la prima barriera difensiva di una nuova società.
Per ottenere risultati significativi in questo senso, non si può fare affidamento esclusivamente alle leggi, così come non ci si può affidare ad una sorta di ottimismo che muove da sé stesso i passi per farsi largo tra la tanta ignoranza abilmente manipolata da sovranisti e odiatori seriali.
Non è il tempo per fare gli schizzinosi innanzi alle leggi che impongono comportamenti che dovrebbero essere frutto di uno spontaneismo coscienzioso, diffuso in una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla solidarietà sociale. La Legge Zan e ogni altra norma volta a tutelare da discriminazioni e cattiverie moleste, da violenze gratuite, vanno sostenute anche se insufficienti per i compiti che si prefiggono: il mutamento della coscienza civile in un contesto sociale pregno di diseguaglianze che alimentano un disagio di vita che destre, fascisti, sovranisti e liberisti varii utilizzeranno sempre per evitare che avanzino quelle istanze egualitarie – prima di tutto economiche – che spazzerebbero via loro e il pubblicamente virtuoso mondo imprenditoriale.
MARCO SFERINI
7 maggio 2021
Foto di Alexander Stein da Pixabay