Il treno dei bambini

Da bambino sognavo di fare il macchinista ferroviere. Volevo guidare i vecchi treni a vapore. Mi piacevano le locomotive con gli stantuffi e le bielle motrici, che fischiavano forte...

Da bambino sognavo di fare il macchinista ferroviere. Volevo guidare i vecchi treni a vapore. Mi piacevano le locomotive con gli stantuffi e le bielle motrici, che fischiavano forte e spargevano – proprio come nella più celebre delle ballate gucciniane – in aria il fumo facendolo troneggiare nel vento. Poi non ho fatto né quello e nemmeno altro. Ed è sempre inutile e difficile dire se le scelte che si sono intraprese sono giuste o sbagliate. Ciò che conta è, in fin dei conti, non aver mai procurato del male a nessuno e nemmeno, se possibile a sé medesimi.

Il treno mi faceva pensare, proprio come il Michael Collins di Neeson, a tutti i posti che avrei voluto vedere e che non avrei visto mai. Simbolo emblematicissimo della velocità moderna, superato dagli aerei mezzo secolo dopo la sua nascita, il convoglio ferroviario era anche un coagulo di storie, di vite che per un attimo si ritrovavano in uno spazio stretto in cui era impossibile evitarsi: dagli sguardi curiosi agli ammiccamenti magari pure gelosi.

Ed in quelle vite che passavano sopra, che salivano e scendevano nelle stazioni più disparate (e talvolta anche disperate), c’era tutto un mondo che cambiava repentinamente. Soprattutto dopo una guerra e vent’anni di dittatura fascista: l’Italia era diventata da pochi mesi una repubblica democratica. Ma sul suo collo ancora si sentiva il fetidume del regime che aveva piegato il Paese all’egida della Germania nazista, riducendolo un colabrodo di pallottole e cannonate, facendone una servitù estera di un imperialismo del sistematico genocidio di intere comunità e popoli.

Chi era nato a metà tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio della nuova epoca di pace si trovava nella condizione della povertà più nera: soprattutto, manco a dirlo, nel Mezzogiorno d’Italia dove Cristo si sarebbe fermato ad Eboli, dove la miseria invece non aveva tralasciato di occupare nessuna delle terre contadine a mezzadria, delle città e dei piccoli paesi in cui era quasi palpabile il limite col nulla della disperazione, del domani invisibile, dell’esistenza appesa ai poveri panni stracciati di gente incapace di difendersi perché priva di qualunque forma di alfabetizzazione.

Viola Ardone è entrata in questa Italia sfibrata e stanca, eppure anche capace di risollevarsi e riprovare a sopravvivere (ché vivere, come asseriva Oscar Wilde, in fondo è un privilegio che hanno davvero in pochi) e ne ha scritto un romanzo che sta a metà tra lo storico e la narrativa, tra la ricostruzione meticolosa degli ambienti, dei paesaggi e persino degli odori che si respiravano in quella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento e la fantasia di un racconto che impedisce al lettore di staccarsene così facilmente.

Il treno dei bambini” (Einaudi, 2019) non ci parla soltanto dell’avventura di Amerigo che viene accompagnato “al Settentrione” (o “nell’Alta Italia“, come si usava dire allora…) per vivere oltre la miseria, ma di una fanciullezza che sarebbe potuta rimanere imbrigliata nelle maglie pesanti della povertà crescente e che, invece, è stata arginata e ostacolata nel suo sopravanzare da iniziative come quelle promosse dall’UDI (Unione Donne Italiane, l’organizzazione femminile del Partito Comunista Italiano) che venne battezzata col nome “Treni della felicità“. Dal 1945 in avanti furono oltre settantamila i piccoli meridionali portati al nord per sfuggire all’indigenza.

Non si trattava necessariamente di separazioni definitive: a volte bambine e bambini stavano presso famiglie anche proletarie del settentrione ma, indubbiamente, più agiate rispetto a quelle del sud per il tempo di una estate; altre volte per qualche anno. Ma, a dispetto della propaganda democristiana che li mostrava come la chiara prova della deportazione nel gelo siberiano della Russia sovietica e, quindi, del divoramento carnivoro da parte dei comunisti bolscevichi, quelle ragazze e quei ragazzi sono tornati tutti a casa e sono sfuggiti ad un destino miserevole.

La storia di Amerigo, Tommassino e Mariuccia, dondolati dai vagoni che si spingono nell’ignoto mondo dell’alta Italia, è questa. La voce narrante di Amerigo ricorda la sua primissima infanzia nei bassi fondi di Napoli: del padre mai conosciuto, forse perché emigrato in America; della madre analfabeta e del fratello morto di bronchite prima che lui venisse al mondo. La paura dei piccoli è quella di chiunque deve affrontare l’imponderabile, lo sconosciuto, l’inconsapevole. Gli avvenimenti che si sono susseguiti sono stati così enormi da sovrastare qualunque esistenza.

La ricostruzione del Paese è appena, appena iniziata. L’occupazione militare alleata è la garanzia di un piano di rifornimenti che, nonostante la mole di investimenti e di merci in arrivo, non può oggettivamente fare fronte alla pregressa situazione miserevole del meridione sommata a quella prodotta dal conflitto bellico mondiale. Se per il padre di Amerigo la Merica è proprio l’America, per lui e i suoi amici è il nord dell’Italia. Teresa Noce ed altre deputate del PCI organizzano dunque questa iniziativa solidaristica che per oltre un biennio crea la spola dei treni, una rete di vera e propria speranza.

Se vogliamo vederla, c’è anche una simbologia non immediata ma leggibile di unità tra meridione e settentrione in questa operazione di soccorso sociale: una uguaglianza che, per la prima volta dopo decenni, viene considerata come elemento costituente di una nazione in pezzi, piena di odio, di rancore, di pessimismo, di classismo, di altezzosa e invereconda ricchezza borghese e strutturale miseria proletaria. La separazione dalla mamma è traumatica, ma lo è anche la condizione dell’indigenza, della fame che non dà tregua e spinge all’autoconservazione in qualunque modo. Questa è una storia di Napoli e del sud d’Italia di cui si parla poco o niente.

Rimane nelle pieghe di un tempo in cui la descrizione sommaria della condizione miserevole del Mezzogiorno viene rubricata quasi a fattore storico, privo di qualunque aggiornamento del secondo Novecento, rimandandolo alle origini dell’Unità d’Italia e descrivendolo come caratteristica di un processo millenario quasi irreversibile. Se proseguiamo in una metaforizzazione del testo, che scorre prosaicamente e che è piacevole davvero leggere pagina dopo pagina, anche la figura di Derna è quindi l’imago di un nord che non sa come affrontare la maternità di un meridione che le è figlio e che ha, per lungo tempo, considerato invece come figliastro.

La matrignità della parte ricca dell’alta Italia ha ben poco orgoglio da spendere dopo la distruzione: dalle macerie viene fuori un livellamento sociale che lascia, seppure parzialmente, intatti i grandi gruppi industriali in sofferenza nel contesto di una Europa altrettanto devastata. La storia di questi bambini del profondo sud dello Stivale si perde quindi nei meandri di tante tragiche storie che la Seconda guerra mondiale vomita addosso ad una umanità che si accorge dei grandi crimini e degli omicidi di massa del nazisfascismo grazie alle immagini dei cinegiornali, alle notizie di Norimberga, ai primi processi ai gerarchi catturati.

Derna si domanda come può lei, che vive da sola e che non ha mai avuto figli, accudire dei ragazzi. Ma la risposta le verrà proprio dal contatto con questi frugoletti di strada che vagabondavano nei bassi della capitale del sud giocando a colorare i topi per venderli come criceti, facendo piccoli lavoretti, rubacchiando di qua e di là, ascoltando le storie di Capa ‘e Ferro. Derna fa parte del PCI ma ha una vena di rassegnazione all’esistente, come se la tragedia bellica fosse insuperabile. Chiaramente non lo è dal punto di vista meramente psicologico, ma il riscatto che i comunisti cercano è anzitutto sociale, civile e morale.

I treni organizzati da Teresa Noce e dalle donne dell’UDI rappresentano esattamente questa congiuntura a tratti ideale e a tratti molto pragmatica: l’assunzione anzitutto delle responsabilità dei più abbienti nei confronti dei più poveri. Non si tratta di una elemosina sociale su vasta scala. Invece è il principio di un capovolgimento di una disvalorizzazione dell’individuo nel contesto collettivo operata dal fascismo con sistematica pervicacia. Non c’è migliore voce se non quella dei bambini, che sono gli innocenti per antonomasia, per raccontare cosa vedono gli occhi dell’infanzia in quegli anni di passaggio veramente epocale.

La lettura de “Il treno dei bambini” è l’occasione, quindi, per scoprire una storia partenopea che è storia d’Italia del dopoguerra; che è una di quei prodotti felici (per davvero) di una riconversione umana della politica nel contesto di una quotidianità distrutta, annichilita dai precocentti, dal razzismo, dalle divisioni di classe che hanno messo poveri contro poveri e li hanno divisi nella loro lotta contro i padroni, contro quella grande impresa che aveva sostenuto Mussolini e dal quale era stata a sua volta politicamente e legalmente tutelata. Viola Ardone ha scritto un libro che ha primeggiato alla Fiera di Francoforte ed è stato tradotto in oltre venticinque lingue.

Un modo chiaro, semplice e allo stesso tempo dinamicamente complesso (ma non complicato) per aprire un cono di luce su una parte di storia del Paese tutt’altro che residuale o da mettere in secondo piano. Serve, ogni tanto, ricordare che noi animali umani, quando davvero vogliamo, soprattutto ammansiti dalle disgrazie e ridotti a considerare la propria origine come qualcosa che prescinde dal territorio ma che non lo dimentica. Amerigo si stacca dalla sua casa, dalla sua città, ma il legame rimane e diviene un tutt’uno con una nuova vita che è pur sempre una parentesi in ciò che poi sarà veramente di lui.

Una parentesi che, tuttavia, sarà un passaggio dirimente per la sua crescita fisica, libera dai bisogni, sociale e individuale, morale e culturale. Da notare, infine, che le donne in questo romanzo, ma nella storia stessa dei “treni della felicità“, hanno un ruolo primario. Da loro parte un istinto che è anche politico ma che, in particolar modo, è umanamente materno, senza voler essere matriarcale. La rivendicazione del ruolo delle donne nella società che si riprende dalla notte del nazifascismo è essenzialmente un progetto di lungo corso che si avvia a divenire costituente per una sinistra comunista moderna.

Proprio sul treno che porta Amerigo e suoi amici al nord c’è questo incontro tra la solidarietà e l’accudimento che, quasi come d’incanto, fa dimenticare ai piccoli le ansie del viaggio, le paure e i timori che gli sono stati inculcati da una ignoranza molesta ma, purtroppo, fuoriuscita da una buona fede ancestralmente popolare.

IL TRENO DEI BAMBINI
VIOLA ARDONE
EINAUDI, 2019
€ 17,50

MARCO SFERINI

4 settembre 2024

foto: particolare della copertina del libro

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