Più si osserva in prospettiva l’esperienza politica di Matteo Renzi, la vicenda del suo governo e l’evoluzione del Partito democratico in questi ultimi tre anni, più diventa forte l’impressione di assistere ad un hegeliano ripetersi della storia in forma di farsa, una vicenda con caratteri grotteschi.
Una vicenda grottesca ma che non costituisce il calco caricaturale di una esperienza recente, quanto la replica deformata di vicende anche ottocentesche della politica italiana. Era giusto infatti, ma solo alla lontana, qualche anno fa, parlare di trasformismo o di costume trasformistico nel quasi ventennio dei governi di Berlusconi, quando non pochi parlamentari attraversavano disinvoltamente i diversi schieramenti e si posizionavano a seconda della convenienza del momento.
Ma non era propriamente quello il fenomeno storico designato nei manuali con tale nome.
Il trasformismo nasce nel lontano 1876, per iniziativa di Agostino Depretis, e non si esaurisce nella pratica delle trasmigrazioni di schieramento da parte di singoli parlamentari. Esso era, ben diversamente, un modulo di governo. Giunta al potere, infatti, la Sinistra storica emarginò la sua ala cosiddetta “Estrema” – vale a dire i propugnatori di programmi riformatori più radicali – e si alleò con la Destra liberale, governando per un decennio con una politica di centro e dando un colpo rilevante all’etica politica e all’immagine pubblica dell’istituzione parlamentare.
Sui vari provvedimenti del governo, infatti, Sinistra e Destra convergevano armonicamente. Maggioranza e opposizione divennero indistinguibili. Dunque, il trasformismo del nostro tempo è, propriamente, quello inaugurato da Renzi, con il patto del Nazareno, vale a dire un’alleanza informale di governo con il precedente avversario. Sennonché Silvio Berlusconi non è Marco Minghetti o i fratelli Spaventa, ma il capo di un partito-azienda, condannato in via definitiva da un tribunale della Repubblica, dunque un pregiudicato, un leader portatore di un gigantesco conflitto di interessi mai risolto, un uomo che aveva manomesso Parlamento ed esecutivo per i propri privati interessi, che aveva dato di sé, all’opinione pubblica mondiale, un’immagine offensiva della nostra dignità nazionale.
Quando un partito, com’è accaduto al Pd di Renzi, finisce con l’allearsi con l’avversario politico di un ventennio, per perseguire peraltro scopi politici controversi, il colpo di natura piscologica e morale subìto da elettori e militanti risulta particolarmente severo. In questo caso una lunga stagione della vita, venti anni dei sentimenti e delle passioni di milioni di persone, vengono rovesciati e contraddetti di colpo dall’iniziativa politica decisa di un uomo solo. È davvero difficile pensare che una simile scelta potesse essere perseguita senza conseguenze anche gravi sul popolo che stava dietro le insegne di quel partito.
I partiti e in primissimo luogo quelli di sinistra, erano (e sono in parte ancora) formazioni di forte identità, luogo di sentimenti oltre che di idee e interessi, terreno di idealità e di generoso volontariato. La dissoluzione di queste fedi, di questi collanti sentimentali, per quanto usurati rispetto ai precedenti decenni d’oro, ha divorato ogni ragione di condivisione ideale tra la grande massa di popolo che si identificava in quel partito.
Nel novero delle repliche del passato andrebbe oggi anche posta l’idea del Partito della nazione che Renzi intendeva perseguire con la combinazione della riforma della Costituzione e l’Italicum. Una formazione che, per almeno un decennio, sarebbe diventato il “Partito unico della nazione”, se gli italiani non l’avessero bocciato nelle urne. Una replica funesta della storia, anche se in un contesto profondamente mutato, fortunatamente abortita.
Ed ecco l’ultimo grottesco ripescaggio, in nuove forme, di comportamenti politici dai bassifondi della vita civile del nostro passato: la negazione della decadenza del senatore Minzolini da parte di molti senatori del Pd. Grazie anche a costoro, il Parlamento ha violato una legge dello stato. Anche in questo caso abbiamo assistito a un episodio che Gramsci avrebbe definito di «sovversivismo delle classi dirigenti», una delle tante forme di violazione dello stato di diritto che i ceti dominanti italiani hanno messo in atto lungo la nostra storia unitaria.
Per questo gli episodi di tesseramento selvaggio al Pd, in varie città italiane, segnalati dalla stampa negli ultimi giorni, non deve sorprendere più di tanto. Lo svuotamento etico-politico di questo partito è ormai completo. Ed esso si presenta quale drammatica testimonianza di una esperienza fallimentare e insieme insegnamento ineludibile per il futuro. Non si può far commercio dei sentimenti e degli ideali delle persone, senza pagare conseguenze, talora anche gravi e definitive. La realpolitik, di cui, nella sinistra, è stato maestro Giorgio Napolitano, può anche conseguire successi momentanei, ma alla lunga può risultare rovinosa. È diventa rovinosa nel caso di Renzi, perché al capovolgimento del sentire comune di tanta parte del popolo del Pd, è anche corrisposto un suo definitivo distacco dalla rappresentanza degli interessi della classe operaia e dai ceti popolari.
PIERO BEVILACQUA
foto tratta da Pixabay