Victor Barrio aveva 29 anni ed era un torero esperto. Un colpo di vento ha sollevato il suo mantello, il toro ne ha approfittato e l’ha incornato all’addome e al petto. Il giovane è morto quasi all’istante. Era dal 1985 che la “tradizione” della corrida non produceva un morto sul terreno “di gioco”. Un morto umano. Perché il principio che vale è sempre lo stesso: “Il toro muore, il torero può morire”.
Quindi, quando accade che sia quest’ultimo a soccombere, si avvera una seconda parte della profezia si analizza umanamente il dolore umano, la morte umana.
Quando muore il toro, visto che è consuetudine, a parte qualche rara eccezione, tutto rientra negli standard di questo “divertimento” sanguinario.
Non voglio fare un elogio del toro. Anzi, trovo patetici i calici reali e metaforici alzati per la vittoria dell’animale sull’uomo. La stupidità umana non si cancella certo con la morte dell’uomo stesso.
Sfidare la morte era il mestiere dei gladiatori, lo era e lo è ancora dei soldati. Insomma, di tutte categorie di persone che hanno a che fare con la cruenza gratuita o indotta da fenomeni sociali, (in)civili e diretti da interessi molto più alti del mediocre fanatismo bellico di questo o quel gruppo di militari che giurano fedeltà alla Repubblica e che sono pronti a difenderla con una prospettiva offensiva piuttosto che difensiva.
Personalmente abolirei la corrida qui e ora: sto dalla parte del toro in generale, non sono contro il torero. Penso sia un’altra banalità del male quella che ricorre alla sofferenza per divertirsi, per celebrare una “tradizione”.
Una tradizione non è un dogma e può essere modificata, abolita, spedita nell’angolo del dimenticatoio e di un oblio che sia a solo uso e consumo della storia.
Così come non voglio fare l’elogio del toro, che è una vittima innocente, altrettanto non voglio condannare il singolo torero. E’ un ingranaggio in un meccanismo più complesso: anche dietro alle corride ci sono grandi giri d’affari. Un giovane di nemmeno trent’anni che muore nell’arena è anch’egli una vittima, con la differenza che si preparava ad uccidere una vita sottoposta al volere umano.
Qui sta il punto: il dominio umano sulle altre vite, animali, vegetali. Su tutto ciò che ci circonda. Noi ci sentiamo i padroni di questa terra e ne abbiamo fatto una variabile dipendente non tanto dalle nostre legittime necessità di sopravvivenza, bensì di accaparramento di profitti, di creazione di potere che gestisce la nascita, la crescita e l’accumulazione delle ricchezze.
E tutto a discapito di qualunque cosa ci circondi. A discapito anche di noi stessi.
La concorrenza gestisce ogni ambito della nostra vita, ci divide in gruppi, in razze, in caste, in ambiti particolari che si fronteggiano e che per farlo creano mondi surrettizi fatti di pregiudizi, paure, odio, prevenzione, perché la realtà e la verità sarebbero disvelatrici della semplicità delle relazioni umane e animali prive del turbine del potere e del profitto.
E allora alla verità si sostituisce il velo dell’ipocrisia e si creano quei timori che dominano prima ancora delle coscienze (che sono le grandi assenti del nostro tempo), gli istinti privi di qualunque base di cognizione, di ragionamento, di analisi.
Ciò che accade negli Stati Uniti d’America, in questa nuova frontiera delle “razze”, in questa riedizione spaventosa di decenni passati tra vendette trasversali tra bianchi e neri, è frutto di una reciprocità che Baumann analizza molto bene in una intervista rilasciata oggi a La Stampa dove afferma che paura e odio sono fratelli, si nutrono dello stesso cibo e non c’è differenza tra i fatti che accadono negli Usa e quelli che accado a Londra dopo il voto sulla Brexit.
La violenza che nasce e cresce per odio, per contrapposizione netta e radicale, è la risposta della disperazione, di una umanità che ha bisogno dello scontro per sentirsi viva e per avere una identità.
E’ la illogica logica del fronte militare, delle diverse divise che si trovano l’una di fronte all’altra e del chi spara per primo. Chi mostra un po’ di pietà e un senso sano di umanità, è il primo a cadere morto a terra. “La guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè ce l’ha insegnato ogni volta che l’abbiamo ascoltata.
Il toro che ha ucciso Victor Barrio è innocente. E anche l’uomo lo è, ma fino ad un certo limitare della sua coscienza. Se accetta questo massacro per divertimento, per tradizione, per ricerca di una identità nazionale o singola che sia, passa il confine proprio di una umanità che non può evolversi ma che fonda la sua esistenza sull’autodistruzione e sulla rigenerazione continua di un sistema economico e sociale che fa della vittima un oggetto da trattare senza alcuna dignità, senza alcun reciproco riconoscimento di eguaglianza.
Del resto, è sempre Baumann che, citando il “tribalismo”, afferma che questo è il vero paradigma su cui si erige e si fonda questa società che ama distinguersi sempre tra “inferiori” e “superiori”.
La grande civiltà occidentale non è altro che una grande tribù dove i riti sono più forti delle coscienze, dove il profitto è più forte della vera vocazione umana all’armonia della vita in comune. Che è possibile: senza corride, senza guerre, senza fanatismi militari e senza separazioni verticali tra alto e basso.
MARCO SFERINI
11 luglio 2016
foto tratta da Pixabay