In memoria delle vittime di tutte le stragi e, oggi, 2 agosto, in particolar modo delle vittime della strage alla stazione di Bologna. 36 anni fa…
Ci siamo abituati alle stragi quotidiane di un terrorismo di cui non riusciamo bene ad individuare la linea di condotta. Ogni giorno, quasi, abbiamo notizia di esplosioni di kamikaze o di bombe messe ora in un mercato, ora in una stazione, magari di attentati fatti in luoghi impensabili dove non ci si immaginerebbe che mai le tentacolari propaggini del califfato nero possano arrivare.
Ci siamo abituati a tutto questo e le notizie diventano clamorose solo se colpiscono paesi vicini al nostro, soltanto se ad essere colpiti sono nostri cugini europei. Al di là degli Urali, ma forse anche prima di questo confine naturale, tutto diventa estraneo, proprio unicamente straniero.
Le giovani generazioni ascoltano la memoria di chi ha vissuto gli anni del terrorismo nero e anche rosso. Spesso questi due colori vengono mischiati e si fa della mistificazione che scivola nel più grossolano revisionismo storico.
Quando qualcuno tenta di operare delle distinzioni storiche per evidenziare meglio i contorni di un determinato contesto anche politico, si finisce con l’essere accusati di revisionismo al contrario, di riabilitazione di un passato che è stato condannato senza se e senza ma.
Il terrorismo è terrore. Il terrore a cosa serve? A stabilizzare la coscienza sociale e politica delle masse? Il terrore, a parte quello di giacobiniana memoria, è stato usato dai governi di mezzo mondo per imbastire colpi di stato, per tenere i popoli sotto una forza pace sociale che consentisse lo sfruttamento di territori che altrimenti sarebbe stato impossibile usare a propri usi e fini economici.
L’abbiamo visto anche molto recentemente con le guerre del Golfo, con quella di Libia e con la nascita di un estremismo che utilizza la religione per fanatizzare chi altrimenti non sarebbe coinvolgibile in azioni estreme, in sacrifici fino alla morte.
Oggi ci prepariamo, noi, Italia, ad acconsentire ai bombardamenti americani richiesti dal governo libico di unità nazionale. Ci prepariamo a dare appoggio logistico mediante le basi militari straniere che sono sul nostro territorio e che ci legano nel patto dell’Alleanza Atlantica.
Ci prepariamo, in sostanza, ad affiancare i belligeranti che colpiranno Sirte e regioni circostanti dove la presenza del Daesh è massiccia, dove costituisce una delle trenta e più province del califfato nero.
Droni, aerei da guerra telecomandati, bombardieri. Niente truppe terrestri. Le perdite devono essere ingenti e solo dalla parte jihadista. La guerra ormai si gioca con le macchine. Per chi le ha. Chi manda alla morte gli uomini perché (per fortuna, viene da dire) possiede solo quelli, subisce un gioco di guerra impari: non più trincea contro trincea, carro armato contro carro armato. Ma uomo contro drone.
Poi questa spirale compirà un altro giro e la sua coda tremerà ancora e farà gridare all’insufficienza dei servizi segreti o chissà a che altro, quando un altro attentato piomberà su un paese europeo.
Terrorismo e guerra, guerra e terrorismo. Uno alimenta l’altra e viceversa. Sono trent’anni che lo diciamo in tutte le salse. Sono trent’anni che siamo accusati di essere deboli, disfattisti, disertori di una idea forte di democrazia imposta con le bombe e genitrice di conflitti interreligiosi e interculturali, nonché economico-politici, che hanno reso esangue il Medio Oriente e l’Africa.
Ma ancora una volta andiamo alla guerra, provando a stare nel mezzo, a non esporci se non come fiancheggiatori di un conflitto che è anche vendetta per gli attentati in Francia e Germania.
Non sappiamo quale sia la vera strategia di Al Baghdadi. Non sappiamo se scatta automaticamente l’individuazione di un obiettivo quando questo partecipa alle azioni di rivalsa contro il suo Stato islamico del terrore. Se così fosse, dovremmo preparare una dose di lacrime fin da ora e una molto a buon peso di ipocrisia per poi fare e leggere i titoli dei giornali sul “pericolo in casa nostra”, sull’attacco al paese dove c’è il centro della cristianità, sulle politiche di non respingimento delle vere vittime di tutto ciò: i migranti, i più deboli della terra. Almeno di queste terre che diciamo di voler vedere emancipate e che facciamo crollare sempre più sotto il peso delle bombe sganciate lassù, sopra le nuvole, da qualche drone con la stella americana dipinta sopra alla carlinga.
MARCO SFERINI
2 agosto 2016
foto tratta da Wikimedia Commons