In ballo non c’è solo la sorte del Pd ma anche quella della coalizione a tre che si stava coagulando nell’ultima fase del governo Conte bis. Ovvio quindi che dagli spalti del Movimento 5 Stelle e da quelli di LeU, formazioni a loro volta disastrate dalla disfatta dell’operazione Responsabili, si guardi con qualcosa in più che semplice «partecipazione» al terremoto del Nazareno.
Galateo politico impone di non mettere becco direttamente nella discussione, ma la speranza e l’auspicio sono palesi lo stesso.
La voce più autorevole in campo è quella di Giuseppe Conte, leader dei 5S in pectore ma lo stesso tempo ancora uomo di raccordo tra le due formazioni principali della coalizione. Telefona al segretario dimissionario, non s’impiccia – segnala su Facebook – ma si dichiara dispiaciuto per «la decisione evidentemente sofferta» e apprezza il «leader solido e leale» che ha sempre «saputo condividere la visione del bene superiore della collettività».
Anche Vito Crimi dice la sua e parla a nuora democratica perché suocera pentastellata intenda. «Condivide» il jaccuse del dimissionario e anzi sarebbe il caso che anche nel Movimento si mettessero da parte «ambizioni, lotte, guerre di potere».
I rappresentanti di LeU sono più espliciti. Loredana De Petris bersaglia «gli attacchi poco generosi per scelte condivise da tutti nella coalizione». Stefano Fassina si sbilancia di più: «Siamo vinti ma non sconfitti. Continuiamo a lavorare all’alleanza progressista con il Movimento 5 Stelle».
La guerra nel Pd si combatte su quel fronte. Il resto, le «poltrone e primarie» che suscitano «la vergogna» del segretario uscente, pesa, certo, ma l’atto di accusa contro Zingaretti deriva tutto da quella decisione, per la verità condivisa anche da chi oggi è più critico, di esaltare Conte come «punto di equilibrio più avanzato possibile» in nome dell’alleanza strategica con i 5S.
Lo sfarinamento del Movimento dopo la caduta del governo aveva seminato il panico nel Pd, l’arrivo di Conte era stato accolto con sollievo proprio perché dovrebbe frenare lo sgretolamento del presunto alleato, il verdetto gelido dei primi sondaggi ha fatto di nuovo precipitare l’umore. Il prezzo del miracolo Conte promette di essere salatissimo per i dem: un salasso elettorale senza precedenti.
Pur di evitare una catastrofe che coinvolgerebbe tutte le anime del Pd e convincere il segretario a ritirare le dimissioni, ieri anche chi su quella strategia è più critico abbassava i toni. Ma senza deporre le armi.
«È normale e legittimo che in un partito come il nostro convivano posizioni diverse», sottolinea per Base riformista Lorenzo Guerini. Il capo dei deputati Graziano Delrio è di identico parere: «Il dibattito interno è fisiologico e non deve essere esasperato». Per il capogruppo alla Camera non si tratta di escludere l’orizzonte di Zingaretti, l’Alleanza progressista con i 5S, ma di arrivarci con tutt’altro protagonismo.
La richiesta di ripensamento nel Pd è corale e sincera. Tutti sanno che sarebbe una pietra tombale collettiva dilaniarsi mentre Matteo Salvini si frega le mani: «Spiace che il Pd abbia problemi ma noi stiamo lavorando per produrre i vaccini». Però se anche il segretario, in nome dell’amor di patria, rinunciasse alle dimissioni, il braccio di ferro sulle strategie future proseguirebbe e al congresso, sia pure in data resa incerta dalla pandemia, bisognerebbe arrivarci lo stesso.
Dopo aver messo alla prova del voto nelle amministrative ormai autunnali la linea del leader, sempre che rimanga tale. Non sarebbe una prova facile e dall’esito garantito. Soprattutto a Roma sarebbe invece a massimo rischio. Roberto Gualtieri scalda i motori, è pronto a correre. Ma se poi al ballottaggio dovesse arrivarci Virginia Raggi lo shock sarebbe per il Pd enorme.
Cosa farà Zingaretti oggi forse non lo sa nemmeno lui. Se resterà segretario la partita della coalizione rimarrà aperta. Ma se invece confermerà il passo indietro, quasi certamente si porterà nella fossa il miraggio di trasformare in polo coeso quella che fu «la maggioranza di Conte».
ANDREA COLOMBO
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