Il taglio del Parlamento e le tante crepe nel fronte del “sì”

Sfuggire alla tentazione delle illusioni va bene, ma chi l’ha detto che non si debba cogliere in tutta la sua importante dimensione la serie di defezioni, di ripensamenti e...

Sfuggire alla tentazione delle illusioni va bene, ma chi l’ha detto che non si debba cogliere in tutta la sua importante dimensione la serie di defezioni, di ripensamenti e di reticenze che si apre nel fronte dei sostenitori del SI’ alla controriforma costituzionale sul taglio del Parlamento?

Importanti settori del centrosinistra, tanto politico quanto cultural-sociale, stanno prendendo le distanze da posizioni che, francamente, sono insostenibili e che poggiano solamente su un malfermo asse di disequilibrio antidemocratico creato dalla propaganda populista pentastellata, a suo tempo, per dare al movimento una ragione di esistenza, di vita e di futura prosperità cavalcando l’onda del malessere (peraltro anche più che giustificabile) dei cittadini nei confronti delle istituzioni.

Come leggere altrimenti la più clamorosa defezione dei rappresentanti del SI’ a ben due tribune referendarie su Rai 2 e su Rai 3?

Vagando nel sottobosco della memoria e nel retropalco dei pensieri, ricordo tribune elettorali e referendarie anche molto bizzarre: onorevoli che si presentavano con enormi patacche di simboli spillate su giacche stilisticamente peggiori di quei loghi; fantasmi pannelliani che sedevano negli studi della Rai con questo burka bianco, con due forellini che lasciavano soltanto presagire che sotto, vista l’imponente mole, ci fosse lo storico leader radicale; oppure – già ormai in epoca recente – la rottura del protocollo televisivo, l’interruzione di un confronto e l’abbandono dello studio da parte di uno dei contendenti.

Ma l’assenza, la non presenza, la diserzione, la rinuncia a presentare le ragioni che si sostengono, quella non l’avevo francamente mai contemplata nelle tante tribune cui ho assistito.

Nel Vangelo di Matteo è scritto: «Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

Mentre il NO è senza alcun dubbio, fin da prima della convocazione del referendum, un NO che non contiene quel “di più” che Gesù attribuisce al Maligno, il SI’ ha bisogno, soprattutto per chi è immerso nel mare magnum della sostenibilità della compagine di governo con la stretta attualità delle elezioni regionali e la tenuta complessiva del governo, di cercare una serie di presupposti che puntellino quelle che – almeno per un terzo dello schieramento che le dovrebbe sostenere – dovrebbero essere le motivazioni che hanno portato alla decisione di amputare il Parlamento nel nome dello snellimento delle procedure burocratiche e del rafforzamento della democrazia.

Tutto questo è la conseguenza di tutta una serie di contraddizioni interne soprattutto al PD, alla presa di posizione di Gori, Cuperlo, Cacciari, forse anche prossimamente di De Luca, de “L’Espresso” prima e de “la Repubblica” poi che si sono apertamente schierati, come il movimento delle Sardine per il “NO“.

Prima di far parte del governo Conte bis, il PD aveva infatti votato, per ben tre volte, convintamente “NO” alla riforma pretesa dalla maggioranza giallo-verde. Dopo la crisi dell’estate scorsa e la nascita del nuovo esecutivo e la nuova alleanza bicromata formatasi, condividendo un compromesso, il PD all’improvviso passò al pieno sostegno della riforma taglia-Parlamento.

Ad oggi il partito di Zingaretti, ufficialmente, fuori dalle aule parlamentari, non si è dunque espresso: resta in un poco comodo limbo del silenzio dove tutto è possibile, dove tutto è tollerabile proprio perché non esiste una parola chiara, una parola data.

Lo stesso silenzio della CGIL, a differenza di ANPI e ARCI che si sono schierate per il NO senza se e senza ma, fa intendere che si preferisce consegnare alla coscienza di ciascuno il comportamento da mettere in pratica col voto nella cabina elettorale. In ballo c’è molto di più di un “semplice” taglio di posti in Parlamento: c’è anzitutto la tenuta dell’equipollenza dei poteri dello Stato; ci sono le relazioni tra parti sociali e governo; c’è l’apertura di un crepa enorme nell’asse costituzionale che determinerebbe un precedente difficile da recuperare: alimentare nei cittadini l’idea che il problema sono i mezzi e non lo scopo con cui li si usa.

Per entrare nel mondo delle metafore, indebolire il Parlamento e la rappresentanza dei territori nelle due Camere, sarebbe un poco come togliere dal telecomando i numeri dei canali che non ci piacciono. Finiremmo per guardare soltanto alcuni canali e magari scoprire che neppure quelli ci vanno tanto a genio. Ma andando avanti col togliere altri tasti, alla fine il telecomando lo butti…

La nostra Repubblica si è salvata da molti tentativi di sovversione – da quelli materialmente messi in atto a quelli minacciati – proprio per il suo carattere parlamentare, perché l’attenzione del Paese è rimasta imperniata sulle due Camere e non è passata nel campo di governo. E’ del tutto evidente che chi mira ad un tipo di Stato differente da quello pensato nel 1948 dai Costituenti, voglia conservare formalmente questa equidistanza tra i poteri, ma intenda a poco a poco dare sempre maggiore rilevanza al ruolo dell’esecutivo a tutto scapito del luogo in cui le leggi si formano e dove si decide del regolamento della vita civile e sociale di tutti i cittadini.

Un visione del genere, per sua natura, non può tenere conto dell’importanza della dialettica tra maggioranza e minoranza, tra forze di governo e forze di opposizione. Sovranisti e populisti puntano a modelli presidenziali che negano di per sé la centralità del Parlamento nella vita della Repubblica. Alcuni di questi partiti sono passati dal reclamare il più acceso regionalismo federalista, quasi simile al modello tedesco, all’ipernazionalismo, al sostenere la necessità dei “pieni poteri“, dell’uomo solo al comando che può anche essere interpretato da un Presidente della Repubblica con funzioni di capo del governo.

Ma la nostra democrazia non reggerebbe un urto simile e finirebbe per sfibrarsi e perderebbe quella durezza costituzionale, quella rigidità imperativa di norme che sono state in oltre settant’anni la migliore delle tutele contro ogni unità di intenti tra diversi apparati deviati dello Stato, logge segrete e trame oscure scoperte soltanto quando avevano già procurato alla Repubblica danni di non poco conto.

Tutte le crepe che si aprono nel fronte del SI’ sono le benvenute. Quella che ci aspetta in questo mese di campagna referendaria deve nuovamente essere una battaglia trasversale, una lotta da CLN, da “Svolta di Salerno“: deve unire senza distinzione tutti coloro che hanno a cuore l’istituzione parlamentare, cuore della Repubblica Italiana perché unica ad avere un mandato popolare.

Sul resto si potrà sempre discutere: sulla bontà o sulla cattiveria di certe leggi, sull’incostituzionalità di altre, sul malfunzionamento burocratico dello Stato, sulle ingiustizie che ne derivano. Ma senza un Parlamento nel pieno delle sue funzioni non si potrà mai aspirare ad una Repubblica veramente democratica.

Sapendo bene che lotta di classe – lotta sociale e lotta istituzionale sono su due piani differenti ma compenetranti: come l’economia capitalista, anche i rapporti di forza tra le classi influenzano la politique politicienne. Come è giusto che sia.

Un Parlamento col segno “meno” farà risparmiare perdinci un caffè all’anno a ciascuno di noi, ma di sicuro è un impoverimento anche sociale perché impedirebbe alle minoranze di accedervi, di alimentare una politica classista dove entrerebbero nelle Camere solo gli sponsorizzati da grandi gruppi industriali, lasciando fuori la voce del mondo del lavoro.

Questo sì sarebbe un costo. Un costo salato. Un costo che non ci possiamo permettere di pagare.

MARCO SFERINI

21 agosto 2020

foto: screenshot

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