Avvertiamo salire attorno a noi la crescente consapevolezza di un senso profondo d’ingiustizia che percorre questa nostra martoriata società che i corifei del potere vorrebbero definire come “moderna”.
Neppure il riformismo riesce ad indicare una direzione di marcia, seppure segnata da tappe graduali e si limita a ricordare la necessità di conservare.
Conservare è indispensabile, ma la testa rimane rivolta all’indietro.
Una società che i fatti di questi ultimi decenni hanno profondamente trasformato nel senso dell’individualismo fine a se stesso, del consumismo quale unica vocazione del singolo, della perdita di senso di un pensiero diventato superficiale.
Un pensiero che non riesce più a penetrare gli interrogativi di fondo del vivere sociale e politico.
Si sono perse per strada le argomentazioni dell’uguaglianza e della solidarietà intese come fattori per la crescita collettiva, organizzata, di una nuova dimensione civile, di una diversa prospettiva sociale e politica da quella dettata dall’immutabile esistente.
Tutti i “provvedimenti” che arrivano dal cosiddetto “alto” hanno il segno della perpetuazione di un domini.
Il segno di una sopraffazione da parte esercitata da dominatori invisibili, irraggiungibili nel loro infinito potere.
I mezzi di comunicazione di massa, oggi moltiplicati dalle novità tecnologiche che in apparenza appaiono promuovere addirittura il “far da sé” e il dibattito più largo, propagano questo messaggio di eternità del potere perché riducono sempre più al soliloquio dell’uomo solo al comando di sé stesso, avvolto nella cupola orwelliana del comando totale.
La grande finzione scenica messa in atto dal “pensiero unico” e dal “sempre uguale” giunge al suo culmine nei messaggi apparentemente religiosi: da papa Francesco sofisticato interprete di una “pietas” apparentemente consolatoria e in realtà destinata alla conservazione di tutti gli equilibri in una “rottura” di schemi che si ferma all’apparire in luogo dell’essere, al ritorno della spada del Profeta, vendicatrice dei potenti sui poveri della terra dei quali acuisce, con azioni ben mirate e spettacolarmente propagandistiche, le sofferenze più inaudite. Eguali nella loro apparente asimmetria : in realtà “defensor civitatis” dell’obbligo dell’obbedire.
E’ assente la profondità di una cultura politica capace di disegnare un’alternativa, proprio a partire dal modo di pensare.
I bersagli degli antichi canti anarchici sono sempre lì: le banche, i padroni, i generali con i baffi a svolgere la loro funzione di oppio dei popoli e di sterminatori di chi osa proporre un pensiero “diverso”.
I governi mai come oggi appaiono come “i comitati d’affari della borghesia” e la democrazia mostra la corda da un lato dell’impossibilità e dell’incapacità di rappresentare le istanze sociali e dall’altra di riferirsi esclusivamente al “pensiero unico” della “fine della storia”.
Chi non si adegua viene emarginato, considerato un disturbatore dell’equilibrio consolidato, ritenuto inadatto a comprendere la “complessità” disegnata da lor signori.
Le democrazie occidentali non reggono il passo dello sviluppo dei tempi e la risposta (come nel “caso italiano”) è quella di una riduzione drastica degli spazi e delle possibilità di confronto anche in sede parlamentare e, più in generale, di rappresentatività politica.
Le contraddizioni emergono stridenti, strisciano sulla pelle degli schiavi mandati al macello lungo i mari e le strade d’Europa.
Valgono ancora le antiche divisioni di classe, di genere, di status intese proprio nel senso dell’espressione di una sopraffazione collettiva.
Ancora la guerra, la schiavitù, lo sfruttamento, la rapina appaiono come i fattori sempiterni nell’equilibrio di rapporti umani sempre più legati all’uso della forza.
Nessuno però ha il coraggio di prendere coscienza di questo stato di cose, nessuno compie lo sforzo di ricominciare a conoscerle.
Anzi il torpore di una politica rarefatta nell’idea della governabilità e non più intesa come fattore primario del riscatto di classe sembra ormai aver presto il sopravvento in una dimensione di unanimità di casta.
Un mondo confuso, dove neppure si riesce a intravvedere la realtà della fine e dell’inizio dei grandi cicli di gestione del capitale.
Uno smarrimento collettivo che sembra ignorare le voci di chi , dal basso, sale a reclamare giustizia
Non s’impugnano più le parole sacre del sacrificio umano: giustizia, libertà, riscatto sociale.
Forse, in questo immane degrado, vale la pena ricordarle proprio quelle parole indicandole nel concreto delle piaghe dell’umanità quali fattori di un concreta ripresa di visione collettiva del cambiamento di una società così profondamente ingiusta.
Non dobbiamo intendere l’avvenire come visione escatologica, bensì come concreto traguardo dell’operato umano; qui e ora.
FRANCO ASTENGO
4 agosto 2016
foto tratta da Pixabay