Sarà che fa tanto caldo e che la testa va altrove, anche quel poco che rimane di cognizione per dare retta agli sproloqui sovranisti, ma buca meno il video, fa tanti buchi invece nell’acqua e finisce per restarvi a galla, alla deriva. La scena politica gliel’hanno rubata nelle settimane scorse i soldi, i quattrini che dall’Europa dovranno un giorno arrivare in Italia. Forse nel 2021.
Per venire fuori, ogni tanto, dal grigiore di un paludamento sotto cui non si è nascosto ma vi è finito, ogni tanto deve strafare: come è suo solito del resto. Fare dell’irriverenza un comportamento quasi-politico, certamente molto poco etico e anche molto poco civico (e civile). Va al Senato della Repubblica, ad un convegno di (“negazionisti” non si può dire, altrimenti se la prendono male…) “fortemente dubbiosi” sull’esistenza di una emergenza sanitaria da Covid-19, evita di mettersi la mascherina e taaac! (avrebbe reso benissimo Pozzetto, con una onomatopea degna di nota) ecco le telecamere che si prestano al gioco, gli obiettivi che lo immortalano mentre stringe la mano a Bocelli.
Ma, comunque, tempi brevi o tempi lunghi, comparsate e sceneggiate inventate lì per lì, non riesce a riconquistare completamente la scena: inciampa nelle inchieste che si susseguono, non gli vengono fuori battute pronte per difendere i carabinieri della caserma di Piacenza sotto sequestro, scivola persino sui migranti. Gli manca l’appiglio: importazione di virus, spargimento di virus? Le figuracce dei suoi deputati in Parlamento lo schermano per un attimo, proprio quando magari si era riappropriato della scena.
Non ci riesce proprio, no… L’estate del coronavirus non fa per lui. Ancora più infausta di quella di un anno fa, quando fece cadere il governo Conte e aprì la strada ad una crisi al buio, nonostante il tanto sole che splendeva. Come oggi. I sondaggi sono impietosi: dal 34% al 23%. Tutto a vantaggio del partito fratello italiano, sovranista e conservatore che ingrossa le sue fila, che gli contende ormai il primato nel centrodestra.
No, non sono proprio tempi buoni: dalla Lombardia alla Svizzera il passo è breve. Ben più lungo era il tragitto tra la tanto sognata repubblica padana e la Nigeria. Storie passate, lasciate passare, così come il secessionismo. Del resto non è mica detto che sia finita qui. Ha sempre qualche risorsa per mettersi mostra: ma l’impressione è che tante occasioni le abbia già sfruttate, pure abbondantemente, che tanti trucchi li abbia ormai svelati e che restino poche strade da percorrere per risalire una china pericolosamente discendente. Per lui, non certo per il Paese e per la democrazia.
Citofoni cui aggrapparsi sembrano non esservene più, codazzi di giornalisti invasati e sgomitanti per intervistarlo nemmeno. Ogni tanto qualche dichiarazione rimbalza dalla bestialità delle reti presuntivamente sociali, arriva nei telegiornali delle reti a tutta notizia, ma passa come citazione. Nessun approfondimento, nessuna rassegna stampa vi si sofferma.
Le ardite simulazioni sondaggistiche, fatte come se si fosse già tenuto il referendum sul taglio del Parlamento e avesse prevalso il “sì” con annessa e connessa l’ipotesi della formulazione di una legge elettorale in stile germanico (soglia di sbarramento al 3 o al 5%), darebbero per vincitore comunque il centrodestra tripartito sul resto delle forze politiche divise e con i satelliti ecologisti, rosastri e centro-liberisti sotto l’asticella da superare per ottenere un minimo di seggi.
Solo nel caso in cui Europa Verde, +Europa, Azione, Italia Viva e Liberi e Uguali superassero almeno il 3% ciascuno e tutti allo stesso tempo, allora il tripartito nero sarebbe all’opposizione nuovamente. Dunque, a ben vedere, numeri un po’ fantasiosi alla mano, non va poi nemmeno (purtroppo) così male. Ma osservando il quadro complessivo della coalizione, che non sembra così compatta come un tempo, Forza Italia appare ormai su un risicato 6% e il resto se lo contendono i due maggiori competitori, allargando da un lato il fronte più estremo della compagine di destra e, dall’altro lato, rosicchiandosi vicendevolmente i consensi senza riuscire a sottrarne ancora tanto ai Cinquestelle quanto all’astensionismo.
C’è una parte ancora ampia del Paese che non ha recuperato alcuna fiducia nella rappresentatività istituzionale e che nemmeno la sperticata, egoista, razzista e xenofoba propaganda delle destre non è riuscita a smuovere per rianimarla: non servono slogan, provocazioni, urla, dibattiti televisivi infuocati e incomprensibili per il continuo sovrapporsi di poco polifoniche voci.
Il timore è che la comunicazione abbia perso il mordente della novità: l’uscita di scena di Renzi, l’arrivo dei Cinquestelle, la trasformazione di un partito indipendentista e secessionista nel suo esatto opposto. Maxipatriottico, italianissimo e ipernazionalista. Ma è ancora troppo presto per dire che la parabola infausta del sovranismo italiano in salsa di rinnovamento leghista abbia imboccato la discesa. Del resto, i sondaggi valgono in quanto interpretazione dei sentimenti popolari: scientificamente o meno raggruppati e studiati, il voto vero è poi l’unica manifestazione concreta della percezione che i cittadini hanno dei problemi sociali, individuali o collettivi che siano, che si tramutano nel consenso a questo o quel partito per cercare una soluzione.
Tredici punti in meno sono tanti, ma pur sempre tanto è ancora quel 23% che condiziona pesantemente il quadro instabile della politica italiana stretto tra promesse europee e vincoli tra Stati e di Stato.
Perché il punto dei punti, quello su cui bisogna fare leva per comprendere la presa del sovranismo su vaste masse di persone, non riguarda unicamente il tema della comunicazione che è pure incastonabile nel complicato dinamismo della politica di oggi, ma per prima cosa concerne le condizioni sociali di una popolazione che si sta impoverendo sempre più e che, con la crisi generata dal Covid-19, investirà una larga parte del cosiddetto “ceto medio” (commercianti, artigiani, piccole imprese familiari, ecc.).
La vita del governo è una sopravvivenza di una maggioranza litigiosa, tenuta insieme dalla costrizione dell’emergenza sanitaria ed economica. Ma quando dovesse terminare la prima, sarà la seconda a farsi prepotentemente largo sulla scena antisociale del Paese e investirà prima di tutto i salariati, il ceto medio e poi, sul piano istituzionale, travolgerà l’esecutivo e metterà fine ad una fragilità frutto di un compromissione nata da un compromesso.
Il diario del rapporto tra crisi sanitaria, mondo del lavoro e più vasto quadro economico fatto dall’ISTAT contiene numeri allarmanti e su cui la destra sovranista può ancora riprendere, purtroppo, fiato nel prossimo autunno: legando le lotte primatiste sull’etnia e la razza ai diritti sociali (di quelli civili nemmeno a parlarne), unendo il tutto al crollo verticale del fatturato di un terzo delle aziende italiane (50% in meno, un dimezzamento che investe quasi tutti i settori, primo fra tutti quello turistico), si ottiene quell’effetto di riverbero dei falsi problemi sulle esasperazioni popolari.
Quando a fine anno, terminato il blocco dei licenziamenti (che Confindustria voleva già revocato da subito, dalla fine di questo luglio), finita la cassa integrazione in deroga, si sbatterà il muso contro il muro dei 500.000 posti di lavoro a rischio, la recrudescenza sovranista potrà ulteriormente esercitare la sua virulenza, scatenarsi contro il governo e richiamare il malsano rapporto tra Italia ed Europa (e viceversa) che impedisce – oggettivamente – una piena crescita del Paese.
Lo scadere della qualità della vita aumenta con una inversione proporzionale: maggiormente colpiti dalla crisi economica causata dal coronavirus sono giovani e donne, soprattutto delle regioni meridionali del Paese. L’ISTAT parla esplicitamente di un “rischio elevato di marginalità” per queste categorie sociali, che significa porle al di fuori non solo del mercato del lavoro ma della rete di protezione sociale che dovrebbe intervenire quando si è oltre la soglia occupazionale: quando si è già piombati nel porto delle nebbie della disoccupazione, ben al di là dei confini della precarietà che pare – nonostante tutta l’incertezza che si porta appresso – ancora un qualche, certo approdo.
Poco importa se quegli olandesi che premono di più per schiavizzarci economicamente sono altrettanto sovranisti ed amici del capitano di piccolo corso. Ognuno è sovranista come meglio crede, a casa sua… Le contraddizioni si vedono sempre, comunque dopo l’altisonante risonanza della peggiore delle retoriche populiste fatta sulla pelle di povera gente contro altra povera gente: se poi a dividere questi poveri c’è anche il colore della pelle, tanto meglio.
Il cinismo sovranista, tutte le sue incongruenze con un sistema democratico e repubblicano, costituzionale anzitutto, non si possono sconfiggere a suon di slogan o facendo grandi alleanze giallo-rosa che ne sbarrino la strada soltanto sul terreno istituzionale.
Per questo la sinistra deve reagire unendo lotta culturale a lotta sociale ed entrambe ad una conseguente lotta politica da fare tanto nelle istituzioni quanto nella quotidianità di una normalità che non è più normale e di un ritorno impossibile alla già tanto precaria normalità ante-Covid-19.
Non bastano le percentuali dei sondaggi a ridefinire i contorni di un progetto antiliberista e anticapitalista. Ammesso che lo si voglia davvero rimettere in piedi, facendo convergere posizioni differenti e sensibilità anche profondamente lontane per tempo, luogo (mentale soprattutto) e con una prospettiva non univoca. Non è una sfida impossibile, ma diventa altamente improbabile se la sinistra di alternativa viene individuata come “utile” soltanto se appoggia, di volta in volta, il tentativo – sempre più spostato a destra – di battere le destre peggiori.
Così facendo, un giorno, non ci renderemo conto che forse le destre – pure in un recente passato – per qualche anno lo siamo stati anche noi. Inavvertitamente, involontariamente, certo non con convinzione. Illudendoci di trasformare le politiche liberiste in politiche sociali, con una presenza istituzionale importante ma risibile rispetto al resto dei numeri parlamentari e con un Paese che aveva ormai classificato anche noi comunisti come “compromessi” col sistema, con il resto della politica, oramai grillescamente intesa, associata al contrario del benessere comune per antonomasia.
Per battere i capitani sovranisti dobbiamo recuperare un rapporto che si è interrotto con i ceti popolari e modernamente proletari, con i lavoratori e le lavoratrici. Nessuno ha la ricetta magica, ma dagli errori si può e si deve imparare. Almeno da quelli di cui siamo consapevoli. Ce ne sono ancora?
MARCO SFERINI
28 luglio 2020
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