Il rumoroso silenzio di Pio XII sull’Olocausto

In una lettera del 14 dicembre 1942, scoperta dell’archivista vaticano Giovanni Coco e indirizzata dal gesuita tedesco Lothar König al segretario particolare del Papa, il prelato tedesco Robert Leiber, si cita il forno crematorio nel lager di Bełzec, collocato nella Polonia occupata dai tedeschi, e viene menzionato anche il campo di Auschwitz
Pio XII

La polemica sull’atteggiamento assunto da Pio XII durante la Seconda guerra mondiale rispetto ai crimini che i nazisti andavano commettendo, a partire dallo sterminio delle comunità ebraiche, non accenna a placarsi.

In essa entrano in gioco molti fattori che, dal passato, ci portano al presente: il ruolo e la funzione che la Santa Sede assunse in anni così complessi e tumultuosi; la sua reale o fittizia neutralità; il sovrapporsi della favorevole disposizione d’animo di Eugenio Pacelli verso la Germania (nella quale era stato nunzio apostolico), traslata in un’irrisolta astensione verso il regime hitleriano.

Più in generale, gli echi del passato che ci pervengono perlopiù attraverso progressive rivelazioni archivistiche, rimandano ad una questione rimossa e che, come tale, costituisce – al medesimo tempo – un tabù impronunciabile (non parlare del merito) come anche un’ossessione persistente (affrontare il medesimo tema tramite temi paralleli e contigui ma mai diretti).

Il merito rimanda a quanto l’ossessione anticomunista di Pio XII abbia pesato sui suoi eventuali silenzi rispetto al brutale conflitto in corso. Ovvero, alle rivelazioni relative alle pratiche di sterminio che i nazifascisti andavano praticando nei territori occupati, ad Oriente rispetto ad ebrei e slavi, «razze inferiori», tali anche perché infettate dal virus del «comunismo».

Ad oggi, in una lettera del 14 dicembre 1942 (l’anno in cui maggiore era stata la violenza, la potenza e la forza dell’annientamento razzista, vedendo in piena funzione i campi di sterminio), scoperta dell’archivista Giovanni Coco e indirizzata dal gesuita tedesco Lothar König al segretario particolare del Papa, il prelato tedesco Robert Leiber, si cita il forno crematorio nel lager di Bełzec, collocato nella Polonia occupata dai tedeschi, e viene menzionato anche il campo di Auschwitz, oggetto di un altro rapporto che – purtroppo – per il momento non è stato ancora reperito.

La lettera, in sé, confermerebbe solo un elemento, ossia che in tutta plausibilità era in corso da tempo, ossia dal 1940 in poi, un flusso di informazioni riservate dalle prelature polacche a Roma rispetto alla condotta tedesca nei riguardi delle popolazioni dell’Europa orientale, a partire dalla componente ebraica.

La qual cosa, al netto della miriade di vincoli, filtri e impedimenti di comunicazione allora sussistenti, renderebbe la Santa Sede testimone consapevole dei crimini nel mentre consumati. Consapevole e, per più aspetti, omertosa o comunque incredibilmente silente. Derogando dal proprio ruolo morale e spirituale. Nella lettera di König si legge che nell’«altoforno» presso Bełzec, «ogni giorno muoiono fino a 6.000 uomini, soprattutto polacchi ed ebrei».

La macchina della morte ne risulterebbe quindi descritta in tutto il suo assoluto orrore, superando la diffusa convinzione che i campi di concentramento fossero ancora un luogo di raccolta e di neutralizzazione degli avversari politici, civili e sociali del nazismo ma non di sterminio.

Tradotto in altre parole: è plausibile che il Vaticano fosse, a quel punto delle cose, a conoscenza del programma di annientamento razzista, come tale rivolto ai civili indifesi classificati secondo un criterio di appartenenza ad un ceppo d’origine, portatore di caratteristiche immodificabili.

Beninteso, per lo storico tutto ciò ha rilevanza nella misura in cui riconnette la violenza nazista, nel suo manifestarsi, ai diffusi registri di omertà, compiacenza, collusione se non condivisione di cui si alimentò. Senza i quali avrebbe invece faticato ad affermarsi. È quindi del tutto plausibile che, mentre alla Santa Sede arrivavano notizie sempre più numerose e dettagliate sulle atrocità perpetrate dai nazisti, Pio XII preferisse esprimere in termini del tutto sfumati la sua posizione.

Significativo, a tal riguardo, è un rapido passaggio del lungo discorso natalizio da lui tenuto nel 1942, in cui si riferiva alle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo deperimento».

Rimane il fatto che una condanna esplicita nei confronti del Terzo Reich non venne comunque formulata dalla Santa Sede, né mai Pio XII indicò chiaramente gli ebrei come vittime dello sterminio in corso. A fronte di ciò, è non meno plausibile affermare che non è esistito, nei fatti, un papa Pacelli antisemita. Senz’altro invece si dava, allora, un pontefice che era parte del confronto epocale tra anticomunismo e comunismo.

Prendendo pienamente le parti del primo, nel nome di un «conflitto di civiltà» che aveva ad oggetto non il destino delle comunità umane bensì quello delle concentrazioni di potere. Tra di esse, il Vaticano. Questo è forse il fuoco da cui ripartire per una riflessione sulla disposizione d’animo dei protagonisti di quel tempo.

CLAUDIO VERCELLI

da il manifesto.it

foto tratta da Wikipedia

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