«Siamo sicuri che possa reggere a lungo?». Nell’aula del senato, la voce del presidente emerito della Repubblica riempiva il silenzio. Era il 25 ottobre di cinque anni fa. Lo ascoltavano tutti, raramente l’anziano senatore di diritto Giorgio Napolitano era presente e interveniva.
Quel giorno lo faceva restando seduto al suo posto e leggendo dagli appunti con una lente di ingrandimento. Parlava sulla legge elettorale, interveniva a favore, ma avanzava dubbi sul fatto che il governo (Gentiloni) avesse deciso di procedere a colpi di voti di fiducia. Che il Rosatellum gli piacesse poco era già chiarissimo in quella domanda: «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?».
Ha retto. Anche perché davanti alla Corte costituzionale questa legge elettorale non è mai arrivata; nessun tribunale (dei tanti ai quali sono arrivati i ricorsi) ha sollevato la questione di costituzionalità, in maggioranza non decidendo. E così per tutta la legislatura i partiti hanno potuto girarci attorno, più o meno tutti lamentando i difetti del Rosatellum (votato, ricordiamolo, dal Pd renziano, dalla Lega e da Forza Italia), ma tutti tenendoselo stretto.
Il momento per cambiarlo non era mai quello giusto. Anche Enrico Letta, che pure ha detto più volte di considerarla «la legge elettorale peggiore possibile», per molti mesi ha preferito rinviare la discussione sulla necessità di riformarla. Arrivando a «scommettere» pubblicamente – era l’autunno dell’anno scorso – che la legge elettorale non sarebbe stata cambiata.
Il segretario del Pd ha vinto la scommessa (facile, dipendeva un bel po’ anche da lui). Come tutti i capi partito, questa estate, ha potuto così approfittare della caratteristica che più di tutte rende appetibile il Rosatellum per chi deve fare le liste: i listini bloccati.
Lo spettacolo dei candidati «già eletti», collocati cioè nelle posizioni dove possono anche evitare lo sforzo di fare campagna elettorale, e di quelli che invece hanno rifiutato postazioni incerte o difficili – ne ha scritto qui Azzariti – dimostra oltre ogni dubbio come con questa legge elettorale i segretari di partito possano disegnare a piacimento i proprio gruppi parlamentari. Anche nel caso in cui si tenga in piedi la finzione delle primarie – vedi i 5 Stelle, con Conte che si è riservato il diritto di scegliere i posti migliori. L’unica difficoltà è quella di accontentare tutte le correnti e ne sa qualcosa il Pd.
Non diversamente dalle precedenti leggi elettorali degli ultimi anni, il Rosatellum è soprattutto una legge disegnata su misura e per la convenienza dei suoi autori. Ma non diversamente dai precedenti si è rivelata un boomerang. Nel 2017 Renzi (e Salvini e Berlusconi) pensavano al traino maggioritario – grazie al voto nel collegio uninominale e al divieto di voto disgiunto – e a favorire le (loro) coalizioni per limitare i 5 Stelle. È andata a finire che le elezioni l’anno successivo le hanno vinte i 5 Stelle e il Pd è rimasto fuori dal (primo) governo.
Quando fu approvato il Rosatellum, l’errore di prospettiva (non solo dei suoi autori, ci siamo caduti in molti) fu quello di considerare prevalente l’espressione del voto uninominale. E dunque di considerare particolarmente fraudolento (i critici ovviamente) il meccanismo per il quale i partiti maggiori coalizzati posso spartirsi i voti di lista non espressi e i voti delle liste rimaste sotto la soglia di sbarramento (ma comunque sopra l’1%).
Invece, alla prima prova, gli elettori hanno dimostrato di votare soprattutto le liste. Anche perché sulle schede di camera e senato i concorrenti nell’uninominale non hanno simbolo, mentre i simboli delle liste con i nomi dei candidati al proporzionale sono ben visibili. Lo dimostra il fatto che la percentuale delle schede in cui è stato espresso solo il voto all’uninominale è bassissima (Floridia ha scritto qui del caso toscano).
Gli autori del Rosatellum avevano pensato a un’Italia divisa in 232 sfide uninominali alla camera e 116 al senato che avrebbero dovuto focalizzare l’attenzione degli elettori e determinare il risultato, a cascata, anche nei collegi proporzionali. È successo il contrario: guidano i collegi proporzionali. Che però nel frattempo, per effetto della riduzione dei parlamentari, sono diminuiti e sono adesso 49 alla camera e 26 al senato. Di conseguenza sono cresciuti enormemente nelle dimensioni: al senato abbiamo adesso collegi elettorali da tre e anche da quattro milioni di abitanti. Per i candidati è una campagna elettorale impossibile. Eppure è quella decisiva.
ANDREA FABOZZI
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