La vittoria di Erdogan in Turchia, seppure di misura, rimane – nonostante le ombre dei brogli denunciati dalle opposizioni kemaliste e curde – un fatto. Per ora. Ed è un fatto estremamente grave per un paese che si trova al confine tra Europa ed Asia, che fa parte della Nato ed è limitrofo alla zona di guerra più incandescente che, attualmente, si possa riscontrare sul pianeta Terra intero.
Un “super-presidente”: questo diventa Erdogan con la riforma appena approvata da poco più della metà degli oltre 48 milioni di elettori turchi che si sono recati al voto.
Un voto “strano”: la denuncia delle irregolarità proviene da 66% dei seggi e contempla circa due milioni e mezzo di voti. Dalla sua parte il presidente aveva tutta la stampa e la propaganda di Stato, eppure vince d’un soffio.
Nelle grandi metropoli, dalla capitale Ankara ad Istanbul fino a Smirne e nella parte del sud-est meridionale, in pieno territorio curdo, il “no” prevale con percentuali assolute.
E così avviene nelle carceri dove sono detenute decine di migliaia di oppositori politici. Anche in quei luoghi bui, nascosti alle telecamere e alle macchine fotografiche dei giornalisti stranieri (ed anche turchi), la riforma iper-presidenzialista di Erdogan viene sonoramente bocciata.
Non esisterà più un primo ministro eletto dal Parlamento ma gran parte dei poteri passerà nelle mani della figura del Presidente della Repubblica: proporrà le leggi, comanderà le forze armate e avrà il potere di nominarne le alte cariche di stato maggiore, potrà proporre i ministri e destituirli senza alcuna autorizzazione parlamentare, sarà a capo dei servizi segreti e potrà persino nominare i rettori universitari.
Per non parlare della prerogativa di nominare dodici dei quindici giudici della Corte Costituzionale turca. Insomma, una monarchia repubblicana, uno Stato privo di qualunque bilanciamento dei poteri, un presidenzialismo disequilibrato volontariamente e distorsivo dello stesso principio, per niente congeniale a nessuna democrazia propriamente detta, del “presidenzialismo”.
Nemmeno il presidente degli Stati Uniti d’America ha la sommatoria di prerogative che ha oggi nelle sue mani Erdogan. Questo dal mero punto di vista del diritto costituzionale. Se andiamo poi ad osservare più attentamente a chi risponde il presidente degli Stati Uniti, a quali poteri politici, economici e militari è collegato, è del tutto evidente che un vero potere travalica il costituzionalismo e anche l’anti-costituzionalismo e si esprime nella delega che gli viene data non dal popolo “sovrano” ma dal mercato sovrano, dalla grande economia che governa il mondo.
Abbiamo dunque riconosciuto che la Turchia, qualora fosse convalidato definitivamente il risultato referendario appena proclamato, si troverebbe in un regime di monocrazia presidenziale, fuori dalla tradizione post-ottomana inaugurata da Mustafa Kemal, dal padre della patria, da quel controverso personaggio che fu e che, nonostante tutto, rese laico un paese abituato ad essere profondamente ispirato dal teocraticismo.
Tutti elementi di tutela della democrazia di istituzioni da sempre molto fragili che hanno avuto però il sostegno occidentale e che hanno sempre represso il dissenso molto duramente. La permanenza nelle carceri di Imrali di Abdullah Ocalan ne è testimonianza evidente, vivente e terribile.
Il conflitto in Medio Oriente riceverà serie conseguenze da questo esito referendario: l’intromissione turca nelle faccende siriane e irachene è registrata dai più eccellenti commentatori di politica estera, di geopolitica e di analisi delle strategie militari. Ne sanno qualcosa nella libera Kobane, in quel Rojava curdo-siriano che potrebbe diventare un accenno di Stato indipendente curdo, magari legandosi ai territori curdi dell’Iraq e spingendo per la formazione di una repubblica indipendente che comprenda anche il sud-est della Turchia che tutti sulle carte geografiche vedono incluso nei territori amministrati da Ankara ma che, in realtà, è la regione curda con più alta densità abitativa insieme a quella iraniana al confine con l’Iraq.
La svolta autocratica di Erdogan sembra anche una risposta a quello strano colpo di Stato che per poche ore fece apparire già caduto il presidente e che, invece, fu messo a tacere con l’arresto di decine di migliaia di oppositori in men che non si dica.
Non è il ritorno dei sultani, non è il ritorno dell’impero della Sublime Porta, ma i caratteri di un centralismo assoluto ci sono davvero, proprio tutti. Persino l’Osce ha dei dubbi sullo svolgimento della consultazione referendaria…
Ma intanto Erdogan può farsi forte di tutto ciò e dire al mondo intero che, con il nuovo assetto costituzionale, potrà rimanere in carica anche fino al 2029.
Da un accentramento dei poteri non deriva mai una stabilità concreta di una società: si accentrano i poteri sempre e soltanto quando si percepisce che si possono perdere e si restringono quindi i margini di trattativa con gli altri apparati di uno Stato.
Da una grande paura deriva una grande forza e da questa non può che derivare una forma di controllo ossessivo di ogni parola che verrà detta, scritta sui giornali, nelle televisioni, alle radio. Da tutto ciò discenderà una gestione del potere fortemente burocratizzata, dipendente dal vertice, con meno autonomie locali, con più repressione poliziesca tanto per i crimini comuni quanto per i combattenti per la libertà del Kurdistan.
Queste forme di autoritarismo in salsa democratica hanno una loro durata ma, prima o poi, sono destinate a logorarsi perché non possono conciliare la minima libertà singola con la complessiva libertà collettiva.
Le contraddizioni attuali resteranno e saranno acutizzate. Niente di buono, dunque, sotto il sole della Turchia. Ancora peggio sotto quello del deserto siriano e iracheno…
MARCO SFERINI
18 aprile 2017
foto tratta da Pixabay