La chiamano “la rivoluzione gentile“, perché la violenza è tutta da una parte: quella del potere, della polizia, dei pasdaran, della teocrazia che domina l’Iran e che impedisce alla repubblica di essere laica, di rispettare i diritti umani prima di tutto e, in questi, quelli civili e poi anche sociali.
Lo chiamano l'”emirato del lusso“: è il Qatar, un piccolo Stato retto da una monarchi assoluta dove, similmente alla Repubblica islamica che gli sta innanzi, è proibito essere omosessuali e dove vigeva, fino a non molto tempo fa, un non-diritto del lavoro che stabiliva la proprietà del padrone sull’operaio. Un potere totalizzante, che impediva (e forse ancora ora impedisce) alla stragrande maggioranza dei lavoratori (per il 70% si tratta dai manovalanza che proviene dal Medio Oriente e dall’Asia) di potersi licenziare, di lasciare l’impresa.
Nonostante la legislazione si stata cambiata, la cosiddetta “kefala” non è del tutto abolita. Per lo meno non sono venuti meno poteri ricattatori e vessazioni che colpiscono i lavoratori che, ora “legalmente“, decidono di non prestare più la loro forza-lavoro per un determinato imprenditore. Le ritorsioni sono all’ordine del giorno. I morti per sfinimento, per incidenti sono – da un conteggio fatto dall’organizzazione internazionale del lavoro – più di 15.000 se si fa data a partire da un decennio a questa parte.
6.000 di questi operai sono letteralmente crepati nei cantieri per la costruzione di una decina di nuovi stadi per i mondiali di calcio che oggi prendono il via. Solo ultimamente, a lavori finiti, sono state fatte “concessioni“: per cui, lavorare dalle dieci del mattino fino alle tre e mezza del pomeriggio non sarà più consentito.
I malori causati da fatica e colpi di calore sono stati una delle principali cause di questa strage proletaria fatta nel nome del grande indotto di ricchezza che porterà l’evento calcistico.
Un mondiale per la prima volta invernale nell’emisfero boreale: proprio davanti alla “rivoluzione gentile” delle donne e degli uomini iraniani. Proprio in mezzo ad una ricchezza che nega i diritti fondamentali degli esseri umani, che nega l’amore, il desiderio, in cui non vi è nulla di illecito o immorale, se non per i fenomeno religiosi che sono sempre uno strumento di potere.
Ancora pochi giorni fa, nel Kurdistan iraniano, al confine con l’Iraq, tre manifestanti sono stati uccisi dalla polizia: la repressione degli ayatollah ha fatto circa 500 morti e oltre 18.000 prigionieri.
La Guida Suprema Alì Khamenei ha dichiarato che gli oppositori che scendono nelle piazze sono troppo deboli per poter pensare di sfidare il regime e rovesciarlo. Ma il tempo lavora per quella straordinaria ribellione di cui il mondo è a conoscenza, grazie al sacrificio, certamente non voluto, di Mahsa Amini e di altre ragazze che non hanno indossato il velo, che si sono poi tagliate i capelli e che hanno spinto le donne di mezzo mondo a farlo in segno di vicinanza, di solidarietà.
Manuel Neue, portiere della nazionale tedesca, ha sfidato apertamente la FIFA che invitava a non fare del calcio qualcosa di politicizzatile, di strumentalizzatile, di accostabile a ciò che accade in Qatar.
Ma in questo piccolo emirato, grande poco più di una delle nostre regioni, le contraddizioni sono tante e tali da non poter adottare un “politicamente corretto“: dove la scorrettezza è legge, dove il sopruso è all’ordine del giorno, dove sono morte migliaia di lavoratori per costruire gli stadi e gli hotel a cinquestelle in cui andranno a pasteggiare e rilassarsi gli spettatori ultraricchi che seguiranno dal vivo le partite, lì, dove tutto questo accade, rimanere completamente indifferenti e adottare il “show must go on” è un atteggiamento vigliacco, irresponsabile, criminale.
Se questi mondiali di calcio possono alzare il livello di critica e di attenzione, dopo essere stati costruiti sul sangue di una classe operaia ridotta ad un regime di vero e proprio schiavismo moderno, allora ben vengano anche i mondiali stessi. Ma sono necessari sempre più gesti eclatanti: in campo, a favore di telecamera, nelle interviste, in pubblico, sugli spalti. Per ricordare agli emiri, agli ayatollah poco al di là del Golfo Persico, che c’è una parte del mondo, e soprattutto di società, che rivendica dei diritti fondamentali e che non può non farlo.
E’ importante che si adoperi ogni mezzo di comunicazione di massa per sostenere tutti coloro che in Iran, in Qatar, in Arabia Saudita e ovunque i diritti umani sono (quasi) completamente negati, lottano quotidianamente per l’uscita da un oscurantismo omicida.
Ciò non significa non rendersi conto che, dentro un capitalismo liberista esasperato, i diritti sono merce di scambio. Tutti quanti: umani, civili e sociali. Ci stiamo riferendo ad una motivazione soprattutto morale che, quindi, prescinde da quelle lotte proletarie che pure divampano anche nelle teocrazie e nelle monarchie assolute, perché alle condizioni disumane di sfruttamento cui sono sottoposti lavoratrici e lavoratori non si può fare spallucce, credendo che siano problemi separati dal resto del mondo.
Quando, purtroppo sempre meno spesso, ci riferiamo ad un internazionalismo dei popoli, ad una considerazione universale dei diritti del mondo del lavoro e, quindi, ad una lotta globale che abbia ripercussione nei singoli ambiti nazionali, dobbiamo poterlo fare pensando che ogni spazio di libertà, in qualunque parte del pianeta, è una ricchezza per tutte e tutti quanti.
Il sostegno che diamo alla gentile rivolta delle donne iraniane non può essere soltanto una questione di trasformazione del diritto civile, ma deve poter essere la presa in carico, da parte di un intero popolo, di una nuova visione anche sociale delle proprie esistenze. Deve poter diventare una ribellione sempre più di massa, sempre più irrefrenabile: la minaccia ultima e definitiva per il regime.
Non stiamo facendo la classifica delle tradizioni, dell’etica, della morale: stiamo parlando di diritti fondamentali per ogni essere vivente. Non riusciamo a rispettare la libertà del singolo e quella collettiva fra noi umani… Figuriamoci quanto tempo dovrà ancora passare prima che ci si renda conto che siamo “animali” come quelli che chiamiamo, anche spregiativamente, sempre “animali“, considerando noi qualcosa di più evoluto (e lo siamo) da far subire e non da mettere al servizio dell’intera vita sul pianeta.
Per questo, se la cassa di risonanza dei mondiali del sangue operaio e delle contraddizioni disumane che vivono i paesi del Golfo Persico può avere un qualche senso, deve poterlo rendere evidente mettendo accanto al fenomeno sportivo l’umanità che dice di voler valorizzare con il “respect” tra avversari, con la messa al bando di ogni razzismo, di ogni superiorità etica, di ogni imposizione religiosa su un diritto alla laicità che ha ancora tanta strada da fare prima di poter diventare una conquista morale, civile e sociale.
Si possono guardare i mondiali con questo spirito critico, con questa cruda consapevolezza di tutto il dolore e la sofferenza che vi sono dietro. E magari, anche dalle nostre televisioni, potrebbero venire messaggi in questo senso, nonostante l’Italia non sia presente per la seconda volta.
Anzi, proprio per questo motivo, la tv italiana può arrivare in Qatar con messaggi altrettanto chiari come quello di Neuer: sarebbe bello poter vedere le bandiere arcobaleno risaltare negli studi della RAI per dire chiaramente: ci piace lo sport e ci piace vederlo, ma non accettiamo che divenga una subordinata solo del mercato e degli interessi economici che prevalgono sui diritti dei lavoratori, sui diritti civili di tutti, su una umanità che fatica sempre più a sopravvivere.
Nessuna ingenuità anche qui: sappiamo tutti quanto valgono i diritti televisivi, quali interessi vi siano dietro all’essersi assicurati tutte le partite del mondiale. Ma forse le lotte possono avanzare anche nel mezzo di queste incongruità: perché se aspettiamo la coerenza a tutto tondo, moriremo da attendisti e non da persone libere che vogliono esistere per resistere e, per questo, per insistere.
MARCO SFERINI
20 novembre 2022
Foto di Maurício Mascaro