Il coronavirus non bussò alle porte d’Italia chiedendo cortesemente il permesso di entrare. Fece il ingresso con tutta la prepotenza di un fenomeno naturale che segue il corso stesso del suo sviluppo, di una evoluzione imprevedibile per noi umani che, tuttavia, obbedisce ai rapporti chimico-biologici di qualunque organismo esistente.
Così, alla fine di gennaio del 2020 cominciammo a fare i conti con quello che sarebbe diventato un vero e proprio incubo collettivo, con una situazione del tutto nuova e mai affrontata almeno negli ultimi settant’anni della storia non soltanto italiana, ma del mondo intero.
L’impatto fu – come è facile ricordare, allontanando qualunque pregiudizio sulle questioni che si vengono trattando – enorme e ci prese tutti alla sprovvista. Le mascherine chirurgiche e le FFP2 che ci saremmo abituati a portare su bocca e naso per almeno due anni, le vedevamo indossate solo da chi si trovava negli ospedali e in situazioni estrema preservazione della sterilità degli ambienti, come le camere operatorie.
Dovevamo fare i conti con tutto questo: con un mutamento improvviso di ogni nostra abitudine e di ogni nostro impegno quotidiano, sia che si trattasse di rapporti interpersonali, familiari o amicali, sia che si trattasse di lavoro. La pandemia avanzava ogni giorno mostrando tutta l’esponenzialità del suo incedere.
Qualunque governo si fosse trovato a gestire questa situazione si sarebbe trovato davanti ad una emergenza tanto imprevista quanto trascurata nella sua prevedibilità (o possibilità…) dai piani sanitari allestiti in precedenza.
Soltanto davanti all’inevitabile, all’enorme, al gigantesco, all’insuperabile, all’incontenibile, ossia davanti ad una forza pari a quella di un evento non gestibile solamente con le normali misure di contenimento dei danni provocati da un cataclisma, abbiamo potuto verificare tutta l’inadeguatezza delle politiche portate avanti per decenni da governi tanto di centrodestra quanto di centrosinistra in materia di salute e sanità pubblica.
L’effetto nefando delle privatizzazioni, dello spezzettamento regionalistico del sistema sanitario nazionale lo si è potuto toccare con mano, vedere con i propri occhi e ascoltare da chi in prima persona viveva i drammi dei ricoverati con la Covid19 che soffocavano sotto i caschi, mentre si contestavano le prime misure restrittive per cercare di limitare il diffondersi di quella che l’OMS aveva dichiarato essere ormai una pandemia, quindi un evento a livello globale, planetario.
L’Italia è stato il primo paese europeo ad essere direttamente colpito dal virus. Almeno lo è stato nella manifestazione del virus, nella sua effervescente fuoriuscita: i primi casi furono quelli di alcuni turisti cinesi. E così partì la canea razzista e giustizialista sui social con frasi del tipo: «Tornatevene in Cina, andate a tossire a casa vostra».
La paura genera stati ansiogeni e panici che sono altrettanto ingestibili quanto lo era il virus in circolazione. Ma la vera e propria follia collettiva doveva ancora tradursi in una specie di movimento che si sarebbe dato una propria connotazione ideologica e, finanche, pure politica.
Il governo Conte II agì prontamente, con tutti i limiti del caso. Ci chiuse in casa per due mesi e informò ogni giorno, con i famosi bollettini del CTS delle sei della sera, tutta la popolazione sull’andamento della pandemia. Pareva di essere in guerra. Ed effettivamente quella era una guerra: una lotta contro un patogeno che colpiva le persone più fragili fisicamente, quelle con più malattie pregresse, quelle anche più forti ed energiche. Per cui tutte e tutti si poteva essere alla mercé della Covid19.
Proteggersi con le mascherine, uscire soltanto per portare il cane a fare i suoi bisogni e per comperare il necessario per mangiare, sono stati i comportamenti che abbiamo un po’ tutti rispettato in quei primi due mesi di esplosione pandemica. Nel contempo, si iniziavano a vedere i primi tratti di un complottismo popolare sostenuto da alcune forze politiche di estrema destra che gridavano alla “dittatura sanitaria“. Dapprima furono i “no-mask“, poi i “no-vax” e infine i “no-green pass“.
Quanto queste categorie abbiano coinciso l’una con l’altra in una minoranza della cittadinanza, sommando ribellismo fine a sé stesso con pregiudizi antiscientifici e vere e proprie “fake news” sui vaccini, è difficile stabilirlo. Il governo di Conte ha certamente commesso degli errori ma ha affrontato con risolutezza una emergenza dal punto di vista della salute pubblica, sapendo bene che gli interessi privati in una faccenda di questa grandezza erano altrettanto grandi.
Tra chi premeva per una fede cieca nella scienza e chi negava alla medesima qualunque presupposto di bontà e di efficacia, la via da seguire fu quella della fiducia. Sapendo bene che le multinazionali del farmaco avrebbero lucrato tutto il possibile da una condizione di allarme generale.
Gli stessi che sarebbero scesi nelle piazze gridando alla dittatura sanitaria, prendevano d’assalto, all’inizio di febbraio, i supermercati, svuotandoli di ogni prodotto in gel per la disinfezione delle mani, facendone incetta e lasciando così tante altre persone prive di un minimo di protezione. Il mercato si adattò quasi subito alla domanda iperbolicamente crescente e riempì gli scaffali di altro gel, di disinfettanti di ogni tipo, inventandosi qualunque formato: grande, medio, tascabile. A prezzi esorbitanti.
Un litro di gel arrivava a costare come l’oro nero: trenta euro, se non di più. Tenere sotto controllo questa speculazione non è stato facile e, probabilmente, in molti casi il governo Conte ha anticipato scelte che potevano essere meno irruenti nella vita di tutti; in altri casi può avere posticipato decisioni che invece dovevano essere prese prima.
Ma la politica ha dovuto seguire il parere degli esperti, di una scienza che studiava l’evolversi dei casi, la loro geolocalizzazione e, in base a ciò, si stabilivano le colorazioni delle regioni: bianca, gialla, arancione, rossa.
La carta del Paese divenne per mesi e mesi un continuo cambio di gradazioni cromatiche, mentre arrivavano i vaccini, mentre si sarebbe passati dalle proteste no-mask a quelle no-vax: l’apice della scempiaggine di un complottismo a tutto uso dei destabilizzatori di un funzionamento democratico del sistema-paese che aveva invece bisogno di reciproca collaborazione e di unità.
Le manifestazioni dei no-vax erano supportate dai dubbi sui vaccini di settori dell’attuale maggioranza: faranno bene, faranno male? Gli effetti avversi? Ce ne sono stati e hanno scritto storie tristissime, perché sono morti giovanissimi, anziani, persone di ogni età. Si è urlato a squarciagola alla “sperimentazione di massa“, ad una testazione dei prodotti su larghissima scala, su milioni di “cavie“.
Non poteva non essere così: pagata profumatamente dalle casse pubbliche, la farmaceutica internazionale e nazionale ha sviluppato dei rimedi che hanno fatto dibattere il mondo scientifico e che, purtroppo, grazie sempre al pessimo uso dei social, hanno fatto dire a quelle “legioni di imbecilli” di echiana memoria che si trattava di “sieri genici sperimentali“, che contenevano microchip che sarebbero stati impiantati sottopelle al momento dell’inoculamento.
Abbiamo imparato alcuni termini che sono diventati in quel periodo, ovviamente, di uso comune; queste parole sono state scritte sui cartelloni e sugli striscioni di manifestazioni i cui partecipanti reclamavano una libertà che, a detta loro, gli veniva negata proprio nell’impedire un diritto di scelta: vaccinarsi o no?
Il punto più basso dell’amoralità incivile, della completa separazione tra diritto individuale e benessere collettivo lo abbiamo toccato con questo egoismo proditorio.
A causa di questa ottusità, di questa diffusa ignoranza, di questa mancata empatia collettiva, di uno scetticismo figlio del sospetto a tutti i costi, di una vera e propria bassezza etica, per il rifiuto di un italiano su dieci a “punturarsi“, ad “inocularsi“, a “farsi iniettare” (tutte espressioni che stigmatizzavano, da parte dei no vax, coloro che si mettevano e mettevano in sicurezza gli altri dagli effetti più letali del virus), il governo decise la misura del “green pass“, del papirello con cui si poteva uscire, andare al lavoro, recarsi un po’ ovunque.
Era semplicemente l’attestazione per il cittadino di essere vaccinato e, quindi, di essere quanto meno più protetto dall’attacco della Covid19, pur non escludendo la trasmissibilità della stessa. Se il Conte II è stato una “dittatura sanitaria“, allora riesce difficile davvero immaginare cosa sarebbe stato un governo Meloni collocato extratemporalmente in quell’epoca.
Non si può fare il salto nel tempo, ma si può oggi avere contezza di come le destre avrebbero trattato il grande problema pandemico in Italia.
Lo avrebbero affrontato con una regionalizzazione estrema delle cure, con quell’autonomia differenziata che è la più perniciosa misura di disarticolazione del Paese in venti sistemi amministrativi, politici e sociali diversi per ricchezza (e povertà), con un pregiudizio altamente inqualificabile nei confronti della scienza medica, vellicando le pruriginosità complottiste, sostenendo un principio di libertà individuale che avrebbe negato il bene comune, l’essenza della collettività.
La priva del nove la si ha con l’istituzione della commissione parlamentare sulla gestione pandemica che include qualunque tipo di indagine a livello nazionale ma esclude, così… a priori, ogni approfondimento sulla gestione fatta dalle regioni. Un aspetto tutt’altro che di poco conto, visto che sono proprio le regioni ad avere il controllo della sanità locale e che il modo con cui la Lombardia gestì la pandemia è molto, molto diverso – per fare un esempio – dal mondo con cui la gestì il Veneto, oppure l’Emilia Romagna.
La commissione che la maggioranza di destra inaugura, poiché priva di un sostegno unanime del Parlamento, parziale per sua natura e quindi facilmente smascherabile come tentativo pregiudiziale di ridare fiato alle teorie antivacciniste supportate dalla legittimità di conoscere la verità sugli effetti avversi dei vaccini. Una verità che non potrà che essere scientifica e che, per questo, la commissione dovrà affrontare senza pregiudizi. Se ne sarà in grado.
Se si sta in punta di diritto, bisogna riconoscere che determinati errori sono stati compiuti soprattutto sul piano del mondo del lavoro. Certe restrizioni sono apparse davvero assurde, ma l’impianto generale di gestione del biennio pandemico è stato, soprattutto per quanto riguarda il Conte II, molto meno improvvido di quello che avrebbe invece potuto essere.
Riconoscere la bontà delle misure prese dal governo in quella fase non significa approvare ogni singola decisione che l’esecutivo ha messo nero su bianco. Significa fare un bilancio obiettivo tra costi e benefici: un binomio orribile, propriamente tipico dell’industrialismo e dell’interesse privato. Un interesse che, almeno in parte, è stato tenuto a freno nei due anni in cui la Covid19 ha dominato le nostre vite, le vite di tutti, provati psicologicamente da un passaggio epocale tutt’altro che indolore.
Ma se quelle misure non fossero state prese, avremmo avuto disastri maggiori: tanti, tanti morti in più, a causa di una leggerezza di egoistici comportamenti di cui i no-vax sono stati gli emblematici paladini. Fino ad arrivare all’assalto della sede della CGIL nel nome… della libertà…
Le evidenze scientifiche rimangono tali, il complottismo è finito in un oblio escrementizio, nel posto dove merita: l’angolo della neghittosità, dell’accidia moderna verso quella comunità nazionale che le destre tanto esaltano e che negano nel momento in cui allestiscono un processo politico e mentre la magistratura ha completamente assolto Conte e Speranza e archiviato l’inchiesta aperta sulla gestione della pandemia.
Il revisionismo attualistico adesso farà il suo corso.
MARCO SFERINI
7 luglio 2023
foto: screenshot You Tube