Il rendez-vous di D’Alema e la crisi della sinistra moderata

La fondazione “Italianieuropei” di Massimo D’Alema ha promosso un dibattito, una chiacchierata fra vecchie glorie del PD, reminiscenze dei DS e del PSI, qualche ancoraggio al vecchio PDS ed...

La fondazione “Italianieuropei” di Massimo D’Alema ha promosso un dibattito, una chiacchierata fra vecchie glorie del PD, reminiscenze dei DS e del PSI, qualche ancoraggio al vecchio PDS ed anche al cattolicesimo di base ritrovatosi a condividere la parte socialdemocratica nell’esperimento tutto italiano, ultima deriva del riformismo liberal-liberista condensata nel veltronissimo tentativo di dare all’Italia un soggetto progressista ma dai tratti americaneggianti.

Una salsa liberista, quella del Partito democratico, di cui si conosce bene il sapore agrodolce: agro se si gusta la parte economica, dolce se le papille gustativo politiche incontrano l’altra parte, quella delle libertà e dei diritti civili. Insomma, il tipico gioco di edificazione di un impianto multiculturale, con differenti provenienze ideologiche tutte unite appassionatamente dal principio di accettazione delle regole del libero mercato entro, si intende, una cornice di sostenibilità, di ricerca della pace sociale che, per questi moderati, vuol dire provare a tenere insieme le pretese di Confindustria con i bisogni estremi dei lavoratori, dei più deboli e vessati di questa società.

Una impresa tanto utopica quanto impossibile quella di rappresentare la sinistra, di essere una specie di terreno fertile per un nuovo progressismo, per un rinnovamento anche soltanto timido dei valori di uguaglianza sociale e civile. Impossibile e non-luogo della politica perché rappresenta una contraddizione nella contraddizione massima: quest’ultima, ne va da se, è il capitalismo che non può – nonostante tutti gli sforzi possibili – proclamarsi “civiltà“, in quanto origine di ogni diseguaglianza presente sul pianeta; mentre la contraddizione dentro questa, appena enunciata, è la trasposizione sovrastrutturalmente politica di questo paradigma.

Continuare a chiamare “sinistra” un partito o una parte politica interclassista è fare torto alla sinistra stessa, nel suo più lato significato calato nella quotidiana espressione che aderisce ai comportamenti delle forze presenti in Parlamento e di quella irrealizzabile connessione con un Paese dei poveri e degli indigenti, degli sfruttati e dei precari, dei disoccupati e dei pensionati, che sono oltre il 50% dei contribuenti ad una spesa pubblica che investe oggi molte risorse – perché costretta dalla pandemia – in un settore sociale come quello sanitario per decenni privatizzato, disarticolato e ridotto all’inedia da i grandi teoremi modernisti di un progressismo tipico proprio della sinistra compatibilista col mercato, col liberismo.

Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Dario Franceschini, Roberto Speranza e altri illustrissimi esponenti di questa sinistra che nel corso dei decenni si è andata frantumando di sua volontà, votata ad una auto-consunzione prevista dal codice di comportamento governista, tutta protesa alla necessità di migliorare la politica e l’economia di una Italia che invece avrebbe avuto bisogno di più Stato e di meno mercato, si sono ritrovati per discutere di una sorta di ennesimo nuovo cantiere unitario, per rimettere insieme esperienze fallimentari: il PD, Articolo Uno, pezzi di socialismo (molto irreale) sparsi qua e là e pensare a come valorizzare l’esistente per ridare al Paese un “partito della sinistra“.

Non è dato sapere se si accoderà anche Fratoianni con Sinistra Italiana, se l’estensione di questo rapporto dialogico comprenderà anche singoli esponenti della cultura, del mondo accademico e anche di quello scientifico, oggi tornato così tanto in voga.

Ma c’è da esserne certi: se la sinistra anticapitalista, comunista e di alternativa non è riuscita a costruire una opzione valida in tanti anni dopo la Bolognina, nonostante abbia rappresentato un punto di riferimento per uno smarrimento generalizzato dopo crolli di muri e regimi presuntamente e presuntuosamente socialisti, la debacle della sinistra progressista moderata, che ha guardato alla funzione di governo come unico strumento possibile relativo al cambiamento sociale, ed al ridimensionamento delle prepotenze del mercato come fronte ideologico-pragmatico, finisce per dimostrare oggi tutta la sua inadeguatezza.

Inadeguata come sinistra per la sinistra anche soltanto nominalmente detta, visto che nel corso di lustri e lustri altro non ha fatto se non interpretare la funzione del servo sciocco di una esigenza tutta padronale, della classe dominante, di primato del privato sul pubblico, sostenendo politiche che hanno complicato i rapporti tanto tra le istituzioni preposte alla tutela dei beni comuni, della repubblica propriamente intesa, di quella istituzionalmente concepita nel 1948: il compromesso costituente è stato stravolto dal compromesso tra ex comunisti, nuovi socialisti riformisti e cattolici democratici per ottenere lo status di rappresentanza ufficiale della moderna classe imprenditoriale.

Questi tentativi di rendez-vous avrebbero anche una tonalità autunnale di dolce commozione, se non fosse che siamo nel già visto, rivisto e stravisto: se D’Alema, Bersani, Speranza decidono di rientrare nel PD o di proporre a Zingaretti la fondazione di una nuova soggettività politica di sinistra cosa potrà mai cambiare nei rapporti tra rappresentanza istituzionale e mondo del lavoro se questo partito non porrà la questione della critica senza se e senza ma al mercato e al capitale come fondamento della sua esistenza?

Non cambierà praticamente niente. Si scriveranno tante belle, infiochettate analisi, disamine dell’oggi per una nuova maschera da mettere alla sinistra di governo, che differisca da quella attuale nello stabilire un diverso tipo di rapporto con quel “populismo gentile” con qui D’Alema stesso ha definito i Cinquestelle, allontanandosi dalla detrazione renziana e facendo capire che, ancora una volta, la sinistra moderata, social-liberale che si voglia dire, scorge in Italia Viva una componente anomala della maggioranza, molto di più di quanto non la scorgesse – fin dal principio – in quel Movimento che veniva da una storia d’amore complicata con la destra sovranista salviniana.

«Tu critichi, critichi, critichi, ma che alternativa hai? Che soluzione proponi? Voi comunisti siete anacronistici, fuori dal tempo, guardate solo al passato. Siete settari, non volete dialogare. Mentre la politica si fa dialogando anche con chi è più diverso da noi». Obiezioni legittime, domande altrettanto consone nella fase di emergenza in cui viviamo, dove ognuno è chiamato ad essere tristemente “straordinario” in ogni gesto che compie, anche nel ripercorrere la storia di un neoriformismo italiano della sinistra che ha fatto macerie della sinistra tanto moderata quanto comunista e rivoluzionaria, per quanto pretendesse d’esserlo senza poterlo dimostrare fino in fondo.

Il punto su cui si dovrebbe tornare a discutere è la centralità della contraddizione tra capitale e lavoro, soprattutto oggi, mentre la pandemia chiarisce fino in fondo tutta la fenomenale ed evidente esistenza delle classi sociali in lotta: lo fa dipanando il velo che impediva a molti di accorgersi delle enormi disparità di trattamenti economici tra lavoratori dipendenti e precari, tra ceto medio e grande industria, tra miserabili del nuovo millennio e miliardari che hanno approfittato del Covid-19 per esserlo ancora di più.

Per la sinistra moderata di D’Alema, Amato e Zingaretti, finché vale il primato dell’economia liberale sulla giustizia sociale, finché è possibile coniugare privilegi profittuali e diritti dei lavoratori senza riscontrare in ciò una contraddizione tale da portare alla rimessa in discussione del sistema in cui sopravviviamo, non c’è nessuna evoluzione in chiave progressista. Sarà sempre un social-liberalismo che guarda di più a Biden rispetto a Sanders, fatte tutte le debite eccezioni del caso quando si paragonano paesi così diversi come Stati Uniti ed Italia.

Non c’è nessun nuovo partito di sinistra all’orizzionte, semplicemente perché questa non è sinistra: è un surrogato dal sapore amaro. Come avrebbe detto Totò: «E’ una ciofeca!».

MARCO SFERINI

6 dicembre 2020

foto: screenshot

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