La reazione del leader turco Erdogan alla sconfitta di Ankara e Istanbul non si farà attendere. O’ Sarracino si sente tradito. Lui è smanioso ma anche freddo, come un giocatore di poker, e vuole essere ammirato, al punto che una sera a cena offrì a noi, attoniti giornalisti italiani, un telefonino per parlare con Berlusconi allora presidente del Consiglio. Ha manie di grandezza, quindi è imprevedibile.
I raìs non sono tutti uguali. A differenza di Erdogan, l’egiziano al-Sisi, giustiziere dei Fratelli Musulmani, è un dittatore che ce l’ha fatta. Piace alla Russia, a Israele con cui collabora nel Sinai, è gradito agli americani, alle ricche monarchie del Golfo e in fondo anche a noi europei, nonostante l’orrore del caso Regeni.
Erdogan non piace neppure ai suoi amici, o presunti tali. I russi ne diffidano, anche se gli vogliono vendere i missili S-400, gli americani lo detestano perché la Turchia è un Paese della Nato che fa quello che vuole. E così il Pentagono gli ha appena bloccato la consegna dei caccia F-35. Erdogan si oppone anche a Israele, eppure con Netanyahu condivide l’idea di essere alla testa di una nuova «grandeur» mediorientale. Il premier ebraico è forse il politico della regione che gli somiglia di più: tutti e due sanno come usare le corde del nazionalismo più esasperato, della religione e soprattutto della paura popolare.
A trattarlo bene sono gli iraniani che ne hanno bisogno per aggirare le sanzioni Usa. Ma gli ayatollah di Teheran sono troppo astuti per non sapere che Erdogan corre sul filo. La repubblica islamica è in agguato, tra Siria e Iraq, per capire quali errori può compiere per dargli una mano interessata a venire fuori dai guai.
L’errore più grosso Erdogan lo ha fatto con l’Isis. Ha creduto alle promesse della signora Clinton che gli Usa avrebbero acconsentito a uno Stato sunnita cuscinetto tra Siria e Iraq per contenere l’influenza della mezzaluna sciita e poi lo hanno abbandonato al suo destino. Per questo Erdogan è furibondo: pensa che gli Usa siano dietro al fallito tentativo di colpo di stato gulenista del 15 luglio 2016.
Non solo. Ritiene che le sue difficoltà derivino dalla «lobby dei tassi di interesse» manovrata dalle banche americane che ritirano gli investimenti e fanno precipitare la lira turca.
Sarebbe sbagliato credere che la perdita di Istanbul e Ankara sia l’inizio della fine di Erdogan. Come ha annunciato, non intende convocare elezioni fino al 2023, l’anno in cui si celebreranno i cento anni della repubblica fondata da Ataturk. È vero che le classi urbane hanno in parte voltato le spalle al suo messaggio incentrato sull’Islam politico ma è anche vero che la Turchia è rappresentata non soltanto dalle grandi megalopoli ma anche dalla provincia, quell’Anatolia profonda alla base del successo del partito Akp, al potere da 17 anni, e che per ora non lo ha abbandonato.
Certo la crisi economica si fa sentire ma è ancora presto per capire se basterà a rovesciare un leader che finora è stato capace di superare molte avversità, tra cui il fallito golpe del 2016 quando già nelle cancellerie europee esultavano per la sua defenestrazione.
In realtà Erdogan si prepara a usare la sua arma più acuminata, il nazionalismo radicale, quello che lo ha portato ad allearsi con la destra fascista dei Lupi Grigi. A farne le spese saranno i curdi, in primo luogo quelli del Rojava massacrati con l’avanzata delle forze turche nel cantone di Afrin. Bastonare i curdi, accusandoli di terrorismo, è lo sport nazionale, risfoderato ogni qual volta il Paese è in difficoltà.
L’anticipo dell’offensiva turca contro i curdi Erdogan l’ha data alla vigilia del voto. «Risolveremo sul campo la questione curda, non con la diplomazia», ha detto. Quando si tratta di attaccare i curdi anche il partito repubblicano Chp, nonostante i favori ricevuti alle urne, si adegua alla sua ala kemalista e non tollera deviazioni dalla turchizzazione. Inutile giraci intorno: Erdogan, anche con i nostri inganni e il ricatto sui profughi siriani, ce lo siamo meritato.
ALBERTO NEGRI
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