«Maysoon Majidi ha ricominciato lo sciopero della fame». A dirlo è il suo avvocato, Giancarlo Liberati, che ieri mattina l’ha sentita per telefono dopo averla incontrata nella mattinata di mercoledì. La regista e attivista curdo-iraniana, detenuta in Calabria, prima a Castrovillari e ora a Reggio, da oltre nove mesi per l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aveva già scelto di smettere di nutrirsi lo scorso maggio, arrivando a pesare appena 38 chili. «È estremamente depressa, nel corso del nostro incontro ha pianto ripetutamente», racconta il consigliere regionale Ferdinando Laghi, che giovedì è andata a farle visita in carcere. C’è anche tanta solidarietà per lei, però. «Maysoon ha collezionato ben due pacchi di lettere e cartoline che certamente l’hanno rincuorata – dice ancora Laghi -. Continuiamo a starle vicino e a sostenere la sua causa».

L’attesa è tutta per la prossima udienza, fissata per mercoledì a Crotone. La procura sostiene che Majidi, 28 anni, fosse «l’aiutante del capitano» dell’imbarcazione che il 31 dicembre dell’anno scorso è arrivata sulle coste calabresi con 77 persone a bordo, ma le prove risultano poche e contraddittorie: due testimoni l’hanno riconosciuta, ma ormai sono irreperibili (almeno per il tribunale) e la loro versione dei fatti non è stata videoregistrata, dunque la difesa non ha la possibilità di effettuare una perizia sulla traduzione delle loro parole. Non solo: a maggio, la trasmissione televisiva Le Iene era riuscita a raggiungerli in Germania e, intervistati, i due hanno detto di non aver mai riconosciuto Majidi come scafista perché la barca era guidata «da un uomo turco».

Gli investigatori hanno anche un video preso dal cellulare della donna in cui lei rassicura il padre sulle sue condizioni e ringrazia il capitano della nave. E però la faccenda è quantomeno controversa: il breve filmato sarebbe infatti un segnale richiesto dai veri scafisti per sbloccare l’ultima fase del pagamento del viaggio. Secondo l’avvocato Liberati, Majidi avrebbe speso circa 50.000 dollari per arrivare in Italia, tra i soldi che si sono resi necessari per arrivare in Turchia dall’Iran, quelli per la traversata in mare e «circa 16.000 dollari» estorti con una truffa. Prove che lei, su quell’imbarcazione, era una passeggera e non un’organizzatrice.

Mercoledì, ad ogni buon conto, verranno interrogati e controinterrogati i testimoni della polizia giudiziaria, poi all’udienza successiva, fissata al primo ottobre, sarà la volta dei consulenti tecnici e degli interpreti, la cui affidabilità viene già messa in dubbio. Il 22 ottobre sfileranno i testi della difesa (due passeggeri del viaggio del 31 dicembre e il fratello dell’imputata) e il 5 novembre dovrebbe arrivare la sentenza di primo grado. A quanto si apprende, dopo essersi visto respingere per tre volte l’istanza di scarcerazione, alla prossima udienza sarà direttamente Majidi con una dichiarazione spontanea a chiedere di poter andare almeno ai domiciliari. Il rischio, per lei, è di prendere fino a 16 anni di carcere, una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo della nave e addirittura il rimpatrio in Iran, dove, in quanto curda, la sua incolumità sarebbe a rischio.

La ventottenne regista e attivista è arrivata in Europa dopo un percorso tortuoso: dopo che l’Iraq le aveva negato il permesso di soggiorno e dopo essere per un breve periodo tornata a casa in Iran, ha deciso di partire con suo fratello alla volta dell’Europa. Al suo arrivo a Crotone però è stata arrestata e così è cominciato il suo personale inferno tra le aule di giustizia italiane. All’ultima udienza, lo scorso 24 giugno, il collegio presieduto dal giudice Mario D’Ambrosio ha accolto le tesi della pm Rossella Multari e ha negato a Majidi la concessione degli arresti domiciliari. Ascoltato il verdetto, dalla gabbia in cui era rinchiusa, la donna ha mostrato a tutti i presenti in aula quelle che ritiene essere le prove della sua innocenza. Due foto: nella prima ci sono lei e il fratello sottocoperta, nell’altra si vede il timoniere della nave insieme a una donna, cioè verosimilmente i due scafisti.

Il caso di Maysoon Majidi fa discutere ormai da diversi mesi, gli attestati di solidarietà sono tantissimi, così come ormai è largamente diffusa la convinzione che lei sia innocente, vittima di false accuse e «danno collaterale» delle politiche migratorie del governo, che mirano alla criminalizzazione totale di chi arriva per mare e punisce in maniera severissima gli scafisti. Che spesso però sono soltanto migranti come gli altri ai quali viene messo in mano un gps e indicata a grandi e incerte linee la rotta da seguire per arrivare a terra. Se tutto va bene.

MARIO DI VITO

da il manifesto.it

foto: screenshot tv