Tom Cotton, senatore trumpista dell’Arkansas ha firmato un editoriale sul New York Times appoggiando l’intervento militare per sedare la dilagante sedizione; un corsivo criticato dal comitato di redazione del quotidiano.
L’editoriale di Cotton parla di «bande di saccheggiatori» e «criminali nichilisti» a caccia di scalpi di poliziotti ed è emblematico del giustizialismo che serpeggia in molte redazioni.
Individuare nel looting (i saccheggi) il dato saliente del sollevamento sociale senza precedenti a cui si assiste oggi in America, è già scelta editoriale emblematica (anche se non originale – va in onda, ad esempio, 24 ore al giorno su Fox News).
Ma la tentazione è irresistibile, come mostrano le prime pagine, una vera corsa alla sdegnosa condanna. È un format vincente quando corredato da titoli a effetto e foto a colori, ma non si tratta un paradigma utile o produttivo.
È invece adeguamento ad un lessico disonesto e strumentale. Le parole pesano come pietre nel contesto di una società intrisa di razzismo sistemico da 400 anni.
Nel 1992 i titoli imposero la qualifica di riot (rivolta) ai fatti che ancora oggi a South Central Los Angeles vengono ricordati come uprising – un sollevamento popolare contro l’ingiustizia.
Thugs – i «comuni teppisti» denunciati quotidianamente dai paladini dell’ordine pubblico – è un termine già scagliato strategicamente contro King, contro Malcolm, Huey e contro Angela Davis.
Le Pantere Nere avevano ribaltato di proposito quella dialettica, rivendicandola. I loro slogan: Burn this sucker down!, By any means necessary! rifiutavano ogni implicita colpevolizzazione, erano atto politico di coerenza e coraggio. Gli valsero l’annientamento sistematico del «Cointelpro» di J. Edgar Hoover al grido familiare di «Criminali! Terroristi!».
La fenomenologia delle «rivolte» e dei «saccheggi» meriterebbe quindi qualcosa di più delle filippiche da prima pagina.
Basterebbe una scorsa anche veloce alla casistica storica e alle voluminose bibliografie accademiche per realizzare che «l’extralegalità», il gangsta – è parte inestricabile di un contesto che va dalle rivolte degli schiavi ai B-movie di Blaxploitation, all’hip hop.
Se proprio dobbiamo parlarne potremmo partire da una riflessione sul saccheggio come specchio capovolto del consumismo, dalle Sneaker da collezione da 500 dollari imposte come oggetti totem del ghetto-desiderio dalle multinazionali delle calzature atletiche, alle griffe e il lusso riappropriati da un immaginario pop afroamericano e sull’asimmetria di tutto questo.
Eppure anche stavolta gli scontri di piazza si allargano ad un conflitto dialettico, e l’immaginario reazionario ricorre a sfiniti cavalli di battaglia.
In realtà dopo l’esplosione di rabbia, il movimento ha avuto una netta svolta verso la disobbedienza civile pacifica con migliaia di persone arrestate ogni giorno per violazione del coprifuoco.
Era la risposta giusta da dare al saccheggio della democrazia inscenato quotidianamente dalla Casa bianca.
La violenza ora proviene soprattutto dalle intemperanze della polizia – cariche pestaggi, vere police riot altra nota tipologia degli scontri sociali in America, specie quelle legate appunto alla brutalità poliziesca. E occorre realizzare quanto nell’esperienza afroamericana il ruolo di controllo sociale della polizia è geneticamente inscindibile da quello delle pattuglie di cattura di schiavi evasi.
Da Ferguson a South Central a Brownsville, le polizie oggi pattugliano ancora le gerarchie e l’arcipelago – urbano e mentale – disegnato da secoli di segregazione e suprematismo. Una missione che affronta con mentalità ed addestramento militare – adottata dai manuali dei marines come proclamava fieramente il Lapd.
Gli enfatici toni bellici che leggiamo su certe pagine nutrono questa falsa narrazione e assecondano implicitamente la concezione di controllo sociale e l’odierna coniugazione poliziesca di una violenza originaria fondata sulla compliance, la sottomissione sotto pena di morte. «Dominateli!» come esige ancora qualcuno.
Intanto se c’è una lezione da acquisire urgentemente dagli ultimi giorni – e dai quattro secoli precedenti – è che gli ultimi autorizzati a formulare rimproveri e ricette, offrire filippiche ed utili consigli sulle forme ammissibili di protesta a chi soffre da generazioni il nostro privilegio, sono le autorità e gli editorialisti. Farlo è squisitissima espressione di arroganza e white privilege.
LUCA CELADA
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