«Giorgia Meloni e il suo partito sono gli unici che, almeno in tempi recenti, non sono stati al governo. Per la psicologia di una massa alla perenne ricerca di un cambiamento, rispetto ad una situazione economica che viene considerata – e non da oggi- molto preoccupante, questo è uno degli elementi di forza». Carlo Galli, per decenni ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Bologna, spiega il successo che sta riscontrando Fdi, almeno nei sondaggi.
Eppure è difficile trovare delle idee forti nel suo programma. Sembra quasi un voto chiesto sulla persona.
Non è una leader carismatica, ma trasmette un’idea di affidabilità, di una persona che non cambia facilmente idea. E il fatto di essere stata l’unica opposizione l’ha rafforzata. L’unica rottura ideologica che afferma di aver praticato è quella rispetto al suo passato neofascista: è l’unica pretesa incoerenza, di cui tuttavia si sta servendo.
Secondo lei cosa farebbe realmente Meloni se arrivasse a palazzo Chigi?
Non credo che avrebbe grandi margini per una politica innovativa. Dovrebbe affrontare gli effetti della crisi e delle sanzioni alla Russia, che ora ci stanno facendo male ma in modo ancora sopportabile. É però probabile che la situazione si aggravi. E a quel punto ritengo che le soluzioni saranno di livello europeo. In sostanza non vedo grandi margini per una agenda che si discosti radicalmente da quella di Draghi, neppure su temi che vengono molto agitati come l’immigrazione. Quello che potrebbe cambiare è la narrazione: l’impostazione della repubblica antifascista verrebbe considerata un retaggio del passato, crescerebbe la retorica sulla triade Dio-Patria-Famiglia, la stessa Europa verrebbe raccontata più come una confederazione di paesi sovrani che come entità politica potenzialmente federale.
Perché circa un quarto degli italiani si appresta a votare Fdi?
Dopo aver provato i 5 stelle e la Lega, e aver testato la delusione, molti elettori fortemente critici si stanno orientando verso Fdi. C’è una frattura tra una fetta di elettorato e il sistema politico che risale al governo Monti, quando il M5S è cresciuto esponenzialmente. La cura dell’austerità ordoliberista ha alimentato l’idea che questo sistema economico non sia più in grado di produrre benessere e quindi ha perso legittimazione. È un distacco emotivo che ha solide radici socio-economiche, nella perdita di fiducia verso il futuro.
Come spiega l’alto gradimento di Draghi insieme alla crescita dell’unica forza di opposizione?
Il premier si è preso i meriti legati alla stabilità e all’autorevolezza internazionale, mentre i partiti hanno pagato i conti di quello che non ha funzionato, a partire dai riflessi economici della guerra.
C’è chi sostiene che la leader di Fdi si stia “draghizzando” per arrivare al potere.
È una manovra in corso: quello che perde in efficacia trasformatrice lo recupera in accreditamento internazionale.
Una sorta di gattopardo.
Il tentativo, se dovesse vincere, sarà quello di compensare la scarsità di cambiamenti reali con una nuova narrazione, a tratti pericolosa, in grado di generare una nuova egemonia.
Se gli elettori cercano novità rispetto alla guerra non le avrebbero con Meloni premier.
Eppure sul fondo resta la convinzione che quello sarebbe un governo nei fatti meno atlantista di Draghi, con maggiori margini di autonomia. Nel centrodestra accanto a un partito filoamericano come Fdi ce n’è uno filo russo come la Lega. Di fondo c’è l’idea chela normalizzazione di Meloni sia transitoria, strumentale, e che una volta al governo possa recuperare una spinta di cambiamento sia simbolico sia strutturale.
Teme una deriva illiberale, sul modello ungherese?
A Costituzione vigente no. Ma è chiaro che la linea di penetrazione per uno sviluppo illiberale è la riforma presidenzialista presentata da Fdi, che renderebbe le elezioni una sorta di partita ultimativa in cui sono in gioco tutti i poteri, dal Quirinale a palazzo Chigi fino al Parlamento, senza avere più poteri di garanzia.
Negli Usa e in Francia il presidenzialismo non è divenuto illiberale.
Sì ma negli Usa ci sono un sistema federale e una Corte suprema, in Francia una forte struttura amministrativa che non è facilmente preda della politica. In Italia no.
Il Pd come è percepito dagli elettori anti-sistema?
Come il partito dell’establishment.
Eppure Letta ha cercato di uscire da questa dimensione.
La sensibilità sociale non può essere solo professata, per essere credibili va anche praticata. Non c’è mai stata una aperta sconfessione del Jobs Act di Renzi, il Pd resta il quarto partito tra gli operai. Certo, il renzismo ha rappresentato il punto più forte di identificazione con l’establishment, ma anche oggi il Pd resta il partito del sistema, delle compatibilità, non dell’agenda sociale. Anche le circostanze, e penso al governo di unità nazionale, non hanno permesso di sviluppare politiche progressiste.
È la destra che vuole abolire il reddito di cittadinanza.
E probabilmente prenderà voti anche in quelle fasce sociali cui intende togliere il reddito. Questo è apparentemente illogico, ma c’è una spinta anti-sistema così forte che può produrre anche risultati paradossali.
Come valuta la rottura tra Pd e M5S?
Ha prevalso l’idea che i dem possano fare un risultato migliore da soli, magari dandosi una vernice più progressista. Ma col mondo del lavoro devono recuperare un distacco che affonda nei decenni. E il nodo dell’identità, laburista o riformista, non è ancora stato sciolto.
ANDREA CARUGATI
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