Passeggiando ogni sera con Bia, mentre lei zampetta qua e là mi capita di guardarmi attorno, libero dalla schiavitù moderna del telefonino. Lo lascio in tasca, ma, forse inconsciamente, non me ne separo del tutto perché il freddo mi porta a tenere almeno una delle mani in saccoccia e quindi il contatto in qualche modo sussiste. L’altra mano, la sinistra, tiene il guinzaglio e un sacchettino con l’occorrente per detergere e pulire i marciapiedi pubblici dalle deiezioni della belva.
La città è già bella che addormentata, c’è poco da vedere: le luminarie natalizie le conosco a memoria; le vetrine dei negozi sono sempre uguali e quando c’è qualcosa di nuovo da scorgere, le luci al neon sotto cartelloni e cartellini mi respingono: sono troppo brillanti per i miei poveri occhi miopi.
Allora, meglio guardare qualche manifesto sui cartelloni delle affissioni comunali: tra mercatini natalizi e fiere, vedi mai che ti capita di trovare un momento interessante su cui focalizzarsi e magari programmare un pomeriggio domenicale fuori porte.
Magari fosse così. Quel che ti capita è di vedere i manifesti della Lega con un sempre sorridente e pacioso Matteo Salvini che alle spalle e accanto a sé ha un bel presepe e sopra la scritta: “Difendiamo le nostre tradizioni e la nostra cultura“. Il concetto centrale è: “Difendiamo il Natale“. Senza punti esclamativi, almeno. L’enfasi aggiunta forse è parsa eccessiva anche ai leghisti.
Faccio l’ingenuo, me lo impongo. Devo. Per capire. Quanto meno per provare a far finta di capire. Anche se ho già capito, se so già praticamente tutto. Ma, non importa. Intanto non ho niente da fare se non seguire la cagnolona che, per sua fortuna, non conosce né le epiche vicende leghiste né tanto meno Salvini.
Siccome bisogna “difendere il Natale” e i presepi, “la nostra cultura“, la prima domanda è: ma chi attacca la “nostra” cultura, genericamente attribuita a tutti gli italiani, anche e a coloro come il sottoscritto che sono affascinati infantilmente dal clima natalizio, ma che si fermano lì. Nulla di trascendentale, tutto ridotto ad un tradizionalismo fanciullesco che permane in tutti noi ma dal quale ci si può separare criticamente sapendo che nessun Gesù Bambino è nato il 25 dicembre di 2019 anni fa e che, tanto sulla data di nascita quanto sui successivi sviluppi, se le fonti storiche sono solamente i Vangeli canonici, allora per quanto concerne la vita di Cristo dubbi e certezze fanno a pugni volentieri.
Ecco. La minaccia fantasma (niente a che vedere con “Star Wars” che oggi esce, nel suo nono capitolo, nelle sale italiane e che – nonostante tutto il mercato che lo circonda – merita di essere visto) alla “nostra” cultura sono già io! Un laicissimo critico delle origini del cristianesimo, anzi della stessa vita di Cristo.
Non posso infatti dirmi “cristiano“. Semmai “protocristiano“. Non sono religioso: non mi interessa credere nei culti che gli esseri umani hanno creato per proteggersi dal timore del non-senso della vita e per questo non appartengo ad una cultura delle tradizioni natalizie fideisticamente e tradizionalmente intesa.
“Buon Natale” lo contraccambio volentieri come saluto. Si tratta di una festa cui non si può sfuggire e, poi, nel grigiore dell’inverno regala un po’ di calore, visto che coincide proprio con la rinascita del sole, come culto pagano sorpassato da una narrazione dei padri della Chiesa che ne hanno fatto la coincidenza con la venuta del figlio di dio in terra.
Tutto questo Salvini lo sa? Me lo auguro. Perché che all’origine del culto natalizio vi sia un culto politeista dovrebbe essere una conoscenza storica acquisita, peraltro non negata ma anzi affermata dalla stessa Chiesa cattolica che ha rafforzato proprio in questo senso il senso della festa cristiana per eccellenza, facendola prevalere su quella Pasqua di resurrezione che dovrebbe invece essere la celebrazione più alta di Cristo, come vincitore sulla morte, redentore di tutti i peccati di una umanità destinata altrimenti a tormentarsi nella punizione affidata da dio ai simili di Adamo ed Eva nei secoli dei secoli.
Non è necessario affidarsi a testi storici complessi: queste curiosità si trovano anche sui giornali “nazional-popolari” proprio in queste settimane quando si confezionano servizi che riassumono il “perché” si festeggia in forma di curiosità da scoprire con giochetti del tipo “vero-falso“.
Sono letture a portata anche di leghista e magari a qualcosa possono servire per scacciare l’ottundimento dogmatico che sta alla base di tanti pregiudizi.
Riguardo i manifesti e, per un attimo, isolo la figura dell’ex ministro dell’Interno, il simbolo con Alberto da Giussano e le scritte. Rimane il presepe. Ed allora mi viene in mente che di presepi ne possono esistere tanti, non solo per la diversità con cui materialmente possono essere costruiti: con statuine di plastica comperate per un euro al mercato, con macachi di ceramica cotta, con pregiate statuette di vetro colorato, con quelle popolari di Benino (per i leghisti e sovranisti vari: attenzione a pronunciare bene il nome del pastorello dormiente… Non è “Benito“, ma “Benino“…).
Semmai i presepi sono diversi a seconda delle intenzioni con cui li si costruiscono e li si mostrano: Salvini ne fa mostra come emblema della tradizione religiosa e culturale di una Italia che dovrebbe somigliare di più al triregno pontificio neoguelfo di Gioberti più che all’iniziale intenzione di rappresentazione della natività da parte di San Francesco. Eduardo De Filippo lo costruiva perché “ci voglio scherzare io”, perché la tradizione aveva il suo posto ma era tutto tranne una ostentazione, una trasformazione di un quadro tridimensionale di duemila anni fa in un contrassegno politico ben definito.
Non sui manifesti, ma nei post su Facebook e Twitter, i leghisti si fanno ritrarre anche con un altro simbolo pagano del Natale: l’albero, l’abete. Se esiste un collegamento tra il “sol invictus” e la nascita del bambinello di Betlemme (sole e dio, cielo e divinità), con l’addobbo degli alberi si risale addirittura a culti pre-pagani. Paganissimi, avrebbe chiosato Eduardo con un superlativo che gli era spesso congeniale nel formulare battute teatrali.
Gli alberi delle foreste nordiche venivano vestiti a festa per il culto di Odino tra i germani, ma così pure erano soliti fare popoli celtici e vichinghi.
Il cammino del tempo e della storia umana ha unificato le tradizioni, le ha rovesciate e trasformate in ciò che oggi siamo abituati noi a chiamare “tradizione“. Non esiste nessuna tradizione per antonomasia, ma un lento fluire degli eventi che tutto trasforma e tutto riduce ad un eterno presente in cui sembra di vivere e che gelosamente vorremmo custodire perché ci regala identità e non smarrimento, sicurezza e non incertezze, potere e non decadimento.
Allora, mentre Bia prosegue nel suo zampettare nel controviale, un po’ mi diverto a vedere quanto sia pacchiano quel manifesto: ma, del resto, corrisponde all’anti-stile del sovranismo, laddove tutto si distorce, si contrae e aderisce perfettamente alla funzione che forze reazionarie hanno nel coltivare una instabilità – storicamente verificabile – che determina una competizione costante tra le tradizioni culturali fatte percepire come unica essenza della propria coscienza, del proprio essere.
Il sovranismo punta tutto, come nuovo nazionalismo di massa, a conferire ai caratteri fisiognomici (sembianze fisiche, colore della pelle) e alla cultura laica e religiosa un rapporto simbiotico per esaltare chiaramente i caratteri di una nuova genetica antiscientifica.
L’apparentemente innocente rivendicazione della difesa del presepe e del Natale come espressione della cultura occidentale, è invece un furbissimo piedistallo su cui far poggiare tutta una politica di contrapposizione etnico-razziale, alimentando così non lo scontro verticale tra sfruttati e sfruttatori ma quello orizzontale tra sfruttati autoctoni e sfruttati provenienti da altre parti del mondo.
Tutto torna, tutto si lega. In tutti i sensi. Fate pure il presepe, ma fatelo come faceva Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello“: una gioia per l’animo; un animo un po’ fanciullesco, ma privo di qualunque secondo fine. Soprattutto privo di un fanatismo religioso che, quello sì, contraddice quel “proto-cristianesimo” cui anche io, in qualche modo, laicamente posso riferirmi nel vedere in Cristo un antesignano della ribellione contro ogni ingiustizia, per una comunione umana universale, per un vero e proprio comunismo.
MARCO SFERINI
18 dicembre 2019
Foto di Gerhard Gellinger da Pixabay