Quando al governo di un paese vanno forze politiche radicalmente risolute nel capovolgere l’impianto costituzionale che riguarda tanto le fondamenta dei diritti sociali quanto quelle dei diritti civili e, quindi, stravolgere al contempo anche l’organizzazione istituzionale dello Stato, il primo cambiamento in negativo che si evidenzia è una sorta di tendenza all’adeguamento da parte di tutti gli uffici, periferici o centrali che siano, al nuovo corso.
E’ avvenuto così tante volte nei millenni che, per l’appunto, si potrebbe dire che si tratta prima di tutto di un fenomeno antropologico inserito in un contesto socio-politico di non trascurabile rilevanza.
Ed è accaduto tanto nelle forme monarchiche delle nazioni quanto in quelle repubblicane. E’ riscontrabile sia negli Stati liberali e democratici sia, in particolare, nei regimi decisamente autoritari, in cui l’ordine discende dall’alto al basso e uniforma le coscienze, appiattendone la criticità, l’autonomia decisionale che ne deriva.
Si tratta, indubbiamente, di qualcosa che potremmo anche etichettare come “riflesso incondizionato”, ma sarebbe troppo generoso ascriverlo a questa categoria di comportamentalità umana. Siamo, invece, davanti ad un timore reverenziale per il potere che diventa vera e propria paura congenita: di essere colpiti da chi comanda con la punizione o il biasimo e che, quindi, questo comporti rischi per la propria incolumità fisica, per il proprio lavoro, per la propria famiglia.
Molte altre volte, invece, l’uniformarsi al vento del potere delle forze politiche in quel dato momento governano può essere dettato da una condivisione delle posizioni espresse, delle decisioni prese, mettendole in essere senza troppo preoccuparsi se queste vanno oltre, tanto per fare qualche esempio più pratico e dei giorni nostri, lo spirito della Costituzione repubblicana.
Che si possa pensare ai rave party come a dei pericoli sociali, utilizzandoli come leva e grimaldello per sollevare una legislazione repressiva contro ogni forma di aggregazione che sia invece ispirata dalla voglia di riunione e di protesta, di politica dal basso e di proposta critica nei confronti delle azioni del governo, è certamente paradossale. Eppure avviene.
Che si possa ritenere i migranti soltanto un problema di ordine pubblico, unificandolo ad un teorema xenofobo e razzista di primazia dei diritti per gli italiani autoctoni e poi per tutti gli altri cittadini, negando a questi ultimi lo status predetto e rendendoli, praticamente, dei “clandestini” senza alcun riconoscimento di tutele, da quelle più complesse a quelle più elementari e umane, è un costrutto di cattiveria che dovrebbe separarsi dal diritto positivo e tanto meno rientrare in quello naturale. Eppure avviene l’esatto contrario.
Intendiamoci, magistrati inquirenti e giudicanti che si rifanno pienamente alla Legge come strumento costituzionale di una Repubblica fondata sul rispetto di ogni persona, di ogni cittadino, di ogni essere vivente, ve ne sono e sono, per questo, fumo negli occhi delle destre di governo.
Ma sempre di più, col passare dei mesi, si acclara la tendenza a respirare il mefitico e fiatiscente alito corruttore della democrazia che proviene dall’instaurarsi del potere repressivo e coercitivo che tanto piace alla forze della conservazione, del postfascismo e del ravanchismo nazionalistico.
Lo storico britannico Ian Kershaw, in molte delle sue straordinarie opere sulla Germania del primo dopoguerra, su Weimar e poi su Terzo Reich, dagli annosi studi che ha condotto ha tratto una considerazione oggettivizzante riguardo il comportamento tanto delle masse popolari quanto degli apparati amministrativi di uno Stato, peraltro modernissimo come quello tedesco del ‘900: non è sempre necessario che il volere del capo del governo sia ripetuto pedissequamente di circolare in circolare, di bocca in bocca, da ufficio ad ufficio per trovare applicazione fedele in ogni dove.
E’ sufficiente che il potere politico sia in grado di essere totalizzante soprattutto nella percezione comune, che, quindi, venga vissuto come l’unica ratio possibile delle norme, anche quando questa le scavalca e le oltrepassa, rendendole inefficaci nella loro primordiale essenza e trasformandole, di fatto, in altro da quello per cui erano state ideate ed approvate.
Kershaw ha dato a questo fenomeno una descrizione nominale che riprende la frase di un impiegato, vergata su una lettera private e che, nella sua sinteticità, esprimeva perfettamente quello che i cittadini tedeschi sentivano come dovere: «lavorare incontro al Führer». Ossia, ogni singola azione del proprio mestiere, del proprio lavoro doveva guardare all’applicazione delle volontà politiche e sociali (nonché economiche, ovviamente) del nuovo regime.
Noi oggi potremmo chiamare i tanti cambiamenti di clima istituzionale come un moderno esempio di questo lavoro che va incontro alla volontà di chi governa, piuttosto che avere come bussola prima e unica il diritto e la Legge utilizzati non come clava per reprimere, bensì come strumento di contenimento dei reati e non dei presunti tali.
Nel momento in cui ci si sente autorizzati ad esacerbare lo spirito delle norme e a farne un mezzo per restringere gli spazi di protesta, di libertà di critica e dissenso, anche laddove queste si manifestano in forme eclatanti, che magari non riusciamo a concepire o condividere del tutto, in quel preciso istante si sta “lavorando incontro al governo” e non al servizio del proprio ufficio pubblico, del proprio ruolo anche costituzionale.
Facciamo un altro esempio relativo all’oggi. Si possono o meno criticare i metodi di protesta dei giovani di “Ultima generazione” (e su questo sito abbiamo rivolto loro anche una lettera aperta per ragionare di tutto ciò insieme); se ne possono approvare lo spirito e la passione per un tentativo di sensibilizzazione di massa sui temi scottanti (letteralmente parlando…) che riguardano il mutamento ambientale nei confronti della popolazione, oppure si può biasimare tutto ciò, ma non si può, proprio per amore di oggettività dichiarare in una accusa che si tratta di una “associazione a delinquere“.
Se questa dovesse diventare una verità processuale, si aprirebbe lo scenario di una messa in discussione di qualunque principio valoriale che uniforma le leggi, sradicandole dal contesto della laicità repubblicana, dalla preservazione dei diritti unitamente alla conservazione dei doveri di ciascuno, e rendendole in questo modo norme al servizio del potere e non più norme e basta.
In pratica, quando un potere esecutivo prende così tanto il sopravvento e dichiara una guerra gelida contro gli architravi di sostegno della Repubblica democratica, a quei princìpi che sono scritti nella storia di un secondo risorgimento italiano che ha liberato la nazione dalla dittatura e dalla guerra nazifascista, altro non fa se non mescolare nel torbido la formalità del proprio rispetto verso la Costituzione e la sostanzialità della voglia di mutarla radicalmente.
Ne abbiamo dei chiari esempi ogni giorno: qualunque atto del governo Meloni è rivolto all’indietro, ci riporta a prima che tante libertà e tanti diritti diventassero tali dopo lotte di popolo, proteste anche singole e singolari, non meno differenti da quelle dei giovani di Ultima generazione che, proprio al pari dei loro predecessori, vengono oggi bollati come dei pericolosi eversori.
L’eversione, invece, sta dove si ordina di finanziare il riarmo, di aumentare la spesa militare secondo i voleri della NATO, di far marciare colonne di carriarmati sui treni diretti al confine con la Slovenia per raggiungere l’Ucraina. L’eversione sta nello spezzettamento dei servizi sociali che dovrebbero essere di carattere esclusivamente pubblico e nazionale, non regionalizzati e resi utili o meno a seconda del PIL che quel dato territorio è in grado di mostrare all’Italia e al mondo.
L’eversione sta dove non c’è più una verità condivisa, dove bisogna farsi largo con l’aiuto della dialettica e dell’opposizione parlamentare per evitare al Paese una regressione vandeana e conservatrice in tema di diritti civili, lasciando apertamente intendere che d’ora in poi, nonostante non vi siano ancora leggi a supporto, si possano trattare i rapporti familiari come dipendenti dalla morale cattolica e dal concetto unico e unicizzante di famiglia “normale“.
Del resto, se la normalità è il “lavorare incontro al governo” e non invece “incontro alla Costituzione e alla Repubblica” (che viene ben prima dello Stato e che lo fa aderire ai fondamentali dettati dalla Carta del 1948), finiscono per rientrare in questo clima, nuovo e vecchio al contempo, anche i corpi intermedi che non hanno direttamente a che fare con le istituzioni ma che, in un certo qual modo, devono farvi riferimento.
Siamo forse di fronte ad una egemonia (in)culturale di massa, ad un tentativo di sovversione delle classi dirigenti? Se si trattasse “solo” di questo, messo per l’appunto tra apposite e necessarie virgolette, saremmo innanzi ad uno scenario che si è già ripetuto molte volte, provando a cambiare la Costituzione nella sua parte dei diritti e dei doveri con un lavoro di carsico scavo delle (in)coscienze popolari, e nella sua parte di organizzazione dello Stato con controriforme fatte approvare dalle maggioranze parlamentari e poi sonoramente bocciate con i referendum.
E’ probabile che questa volta si sia, invece, di fronte ad un tentativo del tutto per tutto di una destra che ha visto passare il treno della vita, la corsa che non passerà più per lungo tempo. E questa occasione, presa al volo dopo la crisi pandemica, l’innesto della guerra nei problemi globali e locali con tutte le ricadute economiche del caso, diventa tanto più impellente quanto più disperata nel suo dispiegarsi giorno per giorno.
Le destre di governo sono verbalmente aggressive, si permettono di tinteggiare la Storia di accenti revisionistici, di sbeffeggiare i fatti fin dai più alti scranni delle istituzioni e deridono gli avversari, minimizzano il ruolo delle opposizioni, provano a ridicolizzare le opinioni diverse dalle loro partendo dal punto di vista di chi esercita un ruolo, oltre che politico, anche morale.
Questa specie di simbiosi tra morale e politica è pericolosissima, perché introduce un principio da “stato etico” che, se lo si guarda da vicino e ne si fa il confronto, è quasi peggio dello “stato teocratico“.
Magari si trattasse di una eticità dal tratto squisitamente hegeliano. Qui, ben lungi da trattarsi di una morale che incarna di sé stessa lo Stato, l’etica diventa instrumentum regni, si fa legge prima della legge stessa e termina con quell’ispirazione impalpabile, e per questo sfuggente alle obiezioni concrete, che è l’uniformità della popolazione, l’adeguamento allo spirito della politica di governo.
Non c’è nulla di astratto in tutto questo, nulla di meramente accademico. E’ una deduzione preventiva, una forma di accorgimento e di messa in guardia nei confronti di un potere che pensa di potersi concedere tutto: oltre ai diritti fondamentali di ognuno di noi e di tutti, anche di riscrivere la Storia con il metodo faceto della barzelletta radiofonica o, se volete molto più modernamente, del podcast radiovisivo.
MARCO SFERINI
16 aprile 2023
foto: screenshot You Tube