La paura, il pericolo, avanzano a Venezia con un doppio passo: con i giorni, le notti, di catastrofe, come ieri, come il 4 novembre del 1966, e con la crisi strutturale dell’ecosistema lagunare, causata dalle manomissioni profonde (interramenti, scavi di nuovi canali, stravolgimento del regime idrodinamico e geologico) e dagli effetti locali della crisi climatica globale.
Le due dinamiche – eventi eccezionali e mutamenti fondamentali, meteo e clima, marea ed ecosistema – vanno sempre più intrecciandosi e la notte del 12 novembre lo ha confermato tragicamente, come da tempo facevano già i rilievi sul campo, scientificamente.
Il dramma odierno è quello di una città che, a dispetto di quanti la credono ormai semivuota, è ancora – parliamo della città d’acqua e del Lido – di oltre 90 mila residenti (come l’intero comune di Treviso, ma concentrati in uno spazio urbano molto minore) e dunque da difendere, oltre che per il suo valore storico e artistico, perché abitata da una comunità viva, attiva, che infatti resiste, anche se soffre. Soffre sia per le difficoltà di restarvi (scarsità di alloggi alla portata di tanti, invadenza della monocultura turistica, costo della vita spesso impervio, difficili spostamenti ecc.), sia per la crescente esposizione a rischi ambientali (emissioni delle grandi navi e del traffico acqueo tutto, moto ondoso, degrado degli edifici, acque alte più frequenti e violente). Su queste fragilità di fondo, si abbattono i singoli eventi catastrofici e grava la crisi strutturale dell’ecosistema.
La risposta che le istituzioni, in primis la Regione Veneto e lo Stato (il Comune votò contro, ma oggi il sindaco Brugnaro, di centrodestra, è a favore), hanno messo in campo ha un nome solo: Mose. Anche in queste ore, si leva il piagnisteo di amministratori e politici che lamentano i ritardi nel completamento dell’opera. Ma il Mose non è «in» ritardo: il Mose è «il» ritardo, l’errore storico che sta lasciando tuttora Venezia esposta al rischio più letale della sua storia. Si susseguono, infatti, le previsioni sull’allagamento non solo dell’intera città, ma della stessa prima fascia costiera, entro i prossimi decenni.
Esattamente l’opposto di quanto previsto da chi ha voluto il Mose, progettato immaginando un innalzamento medio del mare dovuto quasi solo a effetti locali e minimizzando quelli globali, dunque destinato a essere azionato pochi giorni l’anno per qualche ora.
In realtà, i mutamenti dell’ecosistema e del clima globale producono alte maree più frequenti e potenti, così il Mose, se fosse operativo, finirebbe per essere troppo utilizzato, compromettendo laguna e porto. Sulla effettiva possibilità che funzioni, però, il pessimismo aumenta, tanti sono i difetti che stanno emergendo (corrosione, ruggine, sabbia negli ingranaggi, vibrazioni, tenuta dubbia delle saldature e dei meccanismi…), insieme ai costi enormi della manutenzione (almeno cento milioni l’anno) che non è chiaro chi pagherà (né chi sovrintenderà al funzionamento).
Era una strada obbligata, quella del Mose? Niente affatto. Nel 2006 il Comune di Venezia promosse una mostra, una serie di incontri e poi un volume su almeno una decina di alternative emerse nel tempo e più in linea con quanto prescritto dalla Legge speciale per Venezia (1973 e poi 1984), che prevede interventi «graduali, sperimentali e reversibili» (l’esatto opposto del Mose). Queste alternative (tra le quali, sistemi flessibili di paratoie a gravità, sbarramenti mobili, apparecchiature removibili ecc., combinati con interventi di riequilibrio strutturale dell’ecosistema, con rialzi dei fondali e del terreno su cui poggia la città, ripristino della morfologia, potenziamento dei litorali e restringimenti maggiori delle bocche di porto ecc.) vennero proposte al governo che, come scrive uno dei maggiori esperti di idraulica lagunare, il prof. Luigi D’Alpaos, con superficialità e sbrigatività le escluse a vantaggio del prescelto Mose, l’unica grande opera, forse, approvata pur avendo subìto una Valutazione di Impatto Ambientale negativa.
Ora, che fare del Mose «quasi finito» (e costato finora 5, 3 miliardi, di cui uno circa di tangenti, su una previsione finale di 5,5 ma in crescita, come le maree)? Intanto, se si volesse verificarne l’affidabilità, andrebbero corretti i difetti finora emersi, sempre che sia possibile. Poi, ne andrebbe valutata la funzionalità generale finale, senza far sperimentare ai veneziani, come cavie, l’eventuale messa in funzione «dal vivo». Quindi, ne andrebbe almeno considerato il possibile adeguamento al nuovo quadro climatico e ambientale, mentre certamente andrebbe ripresa l’opera di riequilibrio e rigenerazione dell’ecosistema lagunare . Ma è più probabile che, a una disamina onesta e competente, ove mai si facesse, il Mose risulti piuttosto essere un altro problema, invece che la soluzione epocale alla sfida che Venezia sta vivendo, sta soffrendo.
GIANFRANCO BETTIN
foto tratta da Pixabay