Un’altra occasione persa. Il Partito democratico non riesce e mediare con sé stesso, col suo passato remoto e recente e non fa nemmeno a patti con la necessità di dare una certa concretezza all’idea di un fronte progressista per il futuro. Alla votazione sul rifinanziamento delle spese di guerra per sostenere l’Ucraina contro l’invasione russa, a votare contro, fermamente sulla linea del cessate il fuoco, della pace e del far tacere quindi tutte le armi, sono solamente i Cinquestelle ed Alleanza Verdi-Sinistra.
Un generoso sforzo di una parte però esigua dell’opposizione al governo Meloni, tenendo conto che, ormai storicamente, Italia Viva, Azione e +Europa sono per la prosecuzione del conflitto nel nome della difesa di un sistema valoriale occidentale che vede nell’asse Europa-NATO-Stati Uniti d’America la triade della garanzia di un mondo libero opposto a quello illiberale ed autocratico delle dittature euroasiatiche.
Le promesse di Elly Schlein di portare il PD su posizioni contrarie all’armamento continuo e costante dell’Ucraina, così come al sostegno bellico di Israele nella guerra contro Hamas (e contro l’intero popolo palestinese…) si sono infrante impietosamente in un’aula praticamente semivuota della Camera dei Deputati, tra lo scoramento di chi ha, con grande spirito di sintesi, osservato che siamo alla “normalizzazione” di una politica nei confronti del conflitto stratificato mondiale.
L’invio di altre armi a Kiev non è il presupposto per la ripresa della fallimentare controffensiva ucraina e la vittoria, quindi, schiacciante contro la Russia in un lasso di tempo anche lungo eppure visibile. Il rifinanziamento del pacchetto di aiuti militari da parte del nostro Paese, con il voto favorevole del PD (e il solo distinguo nel non voto di quattro parlamentari, tra cui Laura Boldrini), pone la questione dirimente della pace come antefatto della democrazia e come essenza stessa di una interpretazione in senso progressista di tutto ciò.
Se un partito socialista e democratico non fa della pacificazione tra i popoli uno dei suoi pilastri culturali, sociali e politici, esce immediatamente dai confini di una tradizione internazionalista classica, nel senso più elementare del termine, rientrando invece in quella visione globalizzatrice che pretende di subordinare la solidarietà tra le genti alle esigenze del mercato, dell’imperialismo, del liberismo che è fomentatore delle economie di guerra.
La Russia, dal canto suo, si trova, dopo due anni dall’escalation ulteriore del conflitto decennale nel Donbass, nel pieno di una ristrutturazione socio-economica che interpreta il conflitto come costituente di una fase tanto di difesa della propria identità e del proprio territorio, quanto del ruolo che intende e pretende di avere nel multipolarismo che ha surclassato l’unipolarismo post-caduta del Muro di Berlino.
Mentre in Ucraina Volodymyr Zelens’kyj licenzia il comandante dell’esercito Valerij Zalužnyj, a detta delle cronache l’unica vera voce critica nei confronti della conduzione della politica di guerra da parte del presidente e del suo governo, al fronte non c’è nessuno che smentisca la stagnazione delle posizioni e la superiorità comunque numerica dei russi in quanto a truppe sul campo e a rifornimenti di munizioni.
La vox clamantis in deserto rappresentata dal Pentagono, che agitava mesi e mesi fa lo spettro della insolubilità della guerra stando così le cose e, peggio ancora, prospettando la futura vittoria di Donald Trump alla competizione autunnale per il rinnovo della presidenza americana, non è rimasta più così isolata. Tanto che autorevoli esponenti europei si sono, nel quadro di una confusa politica estera dell’Unione, affrettati a dichiarare che ancora un anno di rifinanziamento delle spese di guerra è possibile, ma poi un po’ tutto dovrà essere rivisto.
Non si muove in questa logica di basso tatticismo la posizione del PD, questo è certo. Ma delude il voto espresso alla Camera dei Deputati in favore del pacchetto di aiuti militari. Dopo le dichiarazioni di Elly Schlein c’era come la sensazione ormai data per certa che un voto contrario sarebbe potuto essere possibile e che, proprio su quello, l’opposizione avrebbe ampliato il fronte della richiesta italiana di un impegno diplomatico da parte del governo in sede europea ed anche nei bilaterali possibili.
Complice la storia complicata di una forza politica che per troppi anni è stata pluridentitaria, incapace di una vera sintesi necessariamente ideologica e, quindi, di una chiara visione dei rapporti di forza tanto tra le classi quanto tra le forze in campo sul terreno interno ed esterno delle relazioni tra l’Italia e il resto dell’Europa e del mondo, il PD oggi fa molta fatica a recuperare una fisionomia progressista.
Non è tanto dovuto al fatto che al suo interno coesistano posizioni differenti, quanto alla constatazione che un nuovo centrosinistra, ipotizzato come tale ma francamente inimmaginabile con i Cinquestelle se si paragona l’oggi alle esperienze uliviste ed unioniste o all’avventurismo più liberista del renzismo, oggi non rappresenterebbe una alternativa alle destre ma uno dei tre, forse quattro poli in campo.
Calenda e Renzi, seppure più coltelli che fratelli, cercherebbero una collocazione centrista in un voto tutto politico e, comunque, spostata nettamente a destra. Di Maggi, Bonino, Della Vedova e di quello che diasporicamente rimane della galassia radicaleggiante, si può ipotizzare una trattativa per individuare quale lista permetta loro un aggancio tale da eleggere il maggior numero di parlamentari. I valori vanno e vengono e, in fondo, l’opportunismo è un antico male della politica quasi esclusivamente italiana (al pari del trasformismo).
Ma il PD avrebbe dovuto, proprio con l’occasione del voto sul rifinanziamento dei crediti di guerra per l’Ucraina, marcare un punto a suo favore nella partita della riconversione a sinistra, del recupero progressista, sostenendo le ragioni di un popolo della pace che, anche a vedere le rilevazioni sondaggistiche, è maggioritario nell’insieme della società italiana. Ogni lasciata è persa, dice l’antico adagio. E i danni che le scelte uguali e contrarie fanno sono maggiori di quelle che sarebbero state più difficili ma coraggiose.
L’investimento politico nella segnatura del percorso verso una chiara prospettiva pacifista, sociale e antiliberista è difficile poterlo riscontrare tanto nel PD che vota per l’invio di armi quanto nei Cinquestelle che, su molte altre questioni, sono piuttosto ambigui e ricalcano ancora il vecchio armamentario populista e qualunquista delle loro origini.
Sembra di essere ritornati, pur in presenza di una segreteria che continua a dichiarare la svolta a sinistra come la pars construens di un nuovo corso tanto del PD quanto del “campo largo” sempre più impropriamente pensato, detto e scritto, a quel substrato di incongruenze che hanno per lunghissimo tempo condizionato l’infelice approccio alla simbiosi tra culture politiche molto diverse tra loro pur dentro il recinto del riformismo moderno: popolarismo e socialdemocrazia.
Il tutto condiviso e compenetrato da una declinazione neoliberale che ha messo fine alle rivendicazioni sociali da parte della sinistra moderata in Italia e ne ha fatto, da alternativa che poteva essere insieme a quella più radicale e anticapitalista, una alternativa al pendolarismo bipolaristico di cui si era innamorato ossessivamente Walter Veltroni. Il dilemma, quindi, rimani anzitutto l’identità cultural-sociale di una forza di opposizione che, per essere distinguibile dal resto, non può non fare i conti col recente passato.
Mentre la sinistra di alternativa si dibatte nella ricerca di una unità microcorpuscolare, a tratti eroica ma, per questo, anche molto deprimente per la sua ininfluenza, eppure così necessaria per riavviare e ravvivare almeno un dibattito sulle grandi questioni del nostro tempo (sfruttamento del lavoro, dell’ambiente, pace, guerra, internazionalismo dei più cogenti problemi sociali e civili, diritti umani e una nuova interpretazione fattiva dell’uguaglianza e del concetto stesso di rivoluzione), quella moderata annaspa attorno all’indefinizione.
Ed il PD è il cuore di questa imposizionabilità politica, di un navigare a vista che non permette all’opposizione parlamentare di cementarsi attorno a linee guida che marchino stretto il governo sulle questioni più scottanti per la sopravvivenza di milioni e milioni di italiani; così come non consente ad un fronte espanso dell’alternativa alle destre di guardare, ad esempio, senza strabismi nell’unica direzione possibile quando si parla di guerra: la fine della stessa mediante un processo diplomatico che, però, per essere tale, deve rinunciare ad implementare la macchina del conflitto.
Negare le armi all’Ucraina senza spingerla verso la fine delle ostilità, aprendo una trattativa con la Russia che, lo sappiamo benissimo tutte e tutti, non mollerà i territori conquistati fino ad oggi, sarebbe una contraddizioni in termini. Ma peggio è dare le armi a Kiev e pensare, in questo modo, di contribuire alla risoluzione del conflitto. La macchina bellica si autoalimenta e si inserisce, come è lapalissiano ancora di più dal 7 ottobre scorso, in un circuito di interessi contrapposti tra poli che si fronteggiano per il dominio di vaste aree del pianeta.
Le questioni nazionali sono una realtà di guerra soltanto per chi le vive da oltre il tempo in cui gli ultimi conflitti hanno preso ad avvampare e a riaccendere pericolosissime torsioni etno-identitarie che includono un po’ tutte le questioni sovrastrutturali che fanno da impietosa cornice agli scontri veri e propri: quelli dei grandi capitali che si giocano sulla pelle dei popoli.
Ora, alla sinistra di alternativa, ai comunisti in pratica, si può rimproverare qualunque errore possibile, ma non quello di aver sempre per tempo, anzi prima del tempo stesso, denunciato quello che sarebbe avvenuto. Non grazie a chissà quali particolari doti di preveggenza; bensì mediante una analisi compiuta delle dinamiche nazionali, continentali e globali che vede nel capitalismo e nel liberismo i nemici della povera gente, degli sfruttati moderni, di chi scivola nella povertà sempre più marginalizzante e nera.
Stare dalla parte della pace senza troppe distinzioni, è scegliere di stare anche da questa parte della barricata: quella del sociale, di un socialismo rinnovato e innovato. Di una sinistra in grado di aprirsi ai movimenti che attraversano le dinamiche di ogni giorno, avendo come bussola tanto l’antico internazionalismo quanto l’avversione nei confronti di ogni guerra, sinonimo sempre e soltanto di massacro tra genti che hanno gli stessi interessi, che gli vengono negati dai governi per le lotte di potere e di privilegio che devono mantenere.
Votare a favore dell’invio di armi all’Ucraina oggi, così come magari domani a favore delle missioni militari in chissà quale paese o mare, è sostenere il contrario di un cammino per la ricostruzione di una sinistra progressista moderna. E’ fare il gioco delle destre, è, in sostanza, una incapacità nell’analisi dell’oggi per avere una chiara prospettiva del domani.
Come può un lavoratore italiano sentirsi rappresentato dal PD se il PD non è sicuro di volerlo rappresentare senza se e senza ma, senza dire una volta per tutte NO al liberismo, NO al padronato, NO all’affiancamento tra interessi del mondo del lavoro e interessi dell’impresa? Il compatibilismo non aiuta la sinistra a rimettersi in piedi.
Il tiepido riformismo che ne viene fuori è, se non peggiore, quanto meno simile a quello del recentissimo passato: dai governo tecnici a quelli politici del renzismo, per passare dalla parentesi meno infelice del Conte II e, infine, ripiombare in quella aberrazione di finta unità nazionale che è stata la lunga parentesi draghiana. L’Italia avrebbe urgente bisogno di un confronto a sinistra, per la sinistra stessa. Un confronto tra anime e logiche anche diverse, ma aperto, schietto.
Non c’è l’interesse e la volontà di fare questo passo. Per osservazioni ultraombelicali da un lato, per non recidere del tutto il cordone ombelicale con la contraddizioni genetica alla nascita del PD stesso dall’altro. Sembra una tragedia, ma è probabile che sia più che altro una impietosa farsa, perché qualcosa non va proprio se si tiene alle proprie spalle la bandiera della pace nella sede nazionale del partito e, poi, in Parlamento si vota per la continuazione della guerra…
Qualcosa proprio non va.
MARCO SFERINI
9 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria