Un nuovo anomalo bicefalo sta perdendo la testa. Si può anche credere che la struttura correntizia interna al Partito democratico sia nata ieri, se si vuole dare una parvenza di razionalità e logica politica alla sorpresa eclatante rappresentata dalle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario nazionale. Ma non è così. Il fulmine a ciel sereno, in effetti, è piombato sul Nazareno e ha disarcionato un po’ tutti dalla convinzione che l’ex segretario del PD fosse un uomo, quanto meno, prevedibile nelle sue mosse. E del tutto volontariamente.
Ma, in tutta evidenza, se si è trattato di una spugna gettata per esasperazione, di un crollo nervoso, di una decisione meditata solo in pochissime ore e vissuta quasi completamente in solitudine, non fosse altro per rispetto di questo decorso tonante, l’atto di Zingaretti per essere capito va contestualizzato nella lacerante guerra intestina tra le aree di un dualismo culturale originario mai veramente risolto. Il Presidente della Regione Lazio non è improvvisamente uscito di senno, non l’ha smarrito sulla Luna.
Dalla sua fondazione, il PD è stato, e come si vede rimane, l’anomalia veramente tutta italiana di una fusione di origini ideologiche, di riferimenti sociali e politici così diversi, che si sono potuti incontrare soltanto nel giudizio di necessità della trasformazione della fase acuta del liberismo in una fase tollerabilità dello stesso: una sorta di “sostenibilità” riformista e riformatrice che si è mossa su due piani intersecati e complementari (almeno all’apparenza).
Su un primo piano l’ossessione governista, che è nel DNA di un partito coadiuvante i sostenitori della giustezza, della ragionevolezza e della necessità del libero mercato in espansione (almeno prima del biennio pandemico); su un secondo piano la tentata e agognata rielaborazione di una nuova cultura delle rivendicazioni sociali, comprimendo queste ultime nei margini di compatibilità dettati dal mercato. Una contraddizione irrisolvibile, poiché protesi della contraddizione massima rappresentata proprio dal capitalismo, impossibilitato a dare una dignità di vita ai moltissimi e a garantire al contempo i privilegi di classe di pochissimi.
Questo è un ruolo non da poco per un anomalo bicefalo come il PD. Lo scontro fra le correnti è il minimo che potesse capitare dopo scissioni a destra e sinistra; dopo fondazioni di nuovi piccoli partiti, fastidiosi come le mosche scacciate dall’ondeggiare della coda di una mucca sempre più stanca e annoiata. Anche una tigre può essere sconfitta da uno scorpione se ragiona solamente in termini di forza. Alcuni segnali potevano, già da tempo, lasciare ad intendere che, prima o poi, avremmo assistito ad una crisi implosiva dei democratici: Bonaccini, a dispetto di Orsini e delle correnti ex renziane (ex?), prevale per esposizione mediatica persino su Zingaretti ed ora è chiaramente uno dei candidati alla sua successione (ammesso che le dimissioni siano accettate dall’assemblea nazionale).
Non è credibile un gioco tattico, prospettato da alcuni commentatori: Zingaretti non si è dimesso fintamente. Ha preso atto di una completa ingestibilità della dirigenza del PD nel momento in cui è cambiato l’asse politico governativo e, da una maggioranza dove i democratici avevano un ruolo dirimente, si è transitati ad un ruolo di comprimari con quasi tutte le altre formazioni parlamentari: dalla destre sovranista alla sinistra moderata di LeU. L’ingombrante presenza di Mario Draghi ha rimescolato tutte le carte e creato agitazione non solo nel PD: i Cinquestelle sono in guerra aperta con la piattaforma di Casaleggio, che crea “ControVento“, un nuovo esperimento “rivoluzionario” di contro alla “rivoluzione mite” voluta da Grillo e sostenuta da un Conte pronto a federare il centro politico entro il contesto allargato di una coalizione giallo-rossa.
La larga maggioranza governativa, il piano di un governo di unità nazionale che restringe i margini di azione del riformismo di quel centro-sinistra ritrovato (si fa per dire) e rinnovato (si fa sempre per dire) nel tridente PD – Cinquestelle – Liberi e Uguali, nonché la troneggiante figura dell’ex banchiere internazionale sono stati un detonatore indisinnescabile. La deflagrazione è multipla e colpisce indiscriminatamente nei giochi di una politica che, nell’avanzare della terza ondata pandemica, è intenta ad osservare attentamente solo la piccola, misera cavità del proprio ombelico.
L’era Draghi, che al principio doveva essere una fase di una transizione per la salvezza nazionale dal Covid-19, per la riorganizzazione di una disastrosa campagna vaccinale, per la rimessa in moto di una economia che percuote non solo più la depressione storica meridionale, ma che arriva prepotentemente anche al nord, rischia di divenire il punto di arrivo definitivo della precedente strutturazione politico-partitica, ed aprire una nuova stagione di riposizionamenti interni ed esterni agli equilibri tra maggioranze e minoranze, tra rappresentanza del potere e potere effettivo delle grandi centrali economiche.
Non è azzardato pensare, dire e scrivere che siamo veramente davanti al prologo di una “fase costituente” della politica italiana dove si discute anche di legge elettorale, ma dove soprattutto si cerca di individuare quali saranno i confini di accettabilità, da parte dei mercati internazionali e delle strutture di controllo sovranazionali, per l’accesso alla cabina di regia governativa nella prossima legislatura. Draghi metterà “ordine” nei conti, farà in modo che il capitalismo italiano possa respirare in questa mancanza d’aria che la pandemia provoca, che i padroni lamentano pur avendo abbastanza ossigeno che gli viene dalle ingenti risorse accumulate grazie a lustri di evasioni ed elusioni fiscali, di becero sfruttamento dei lavoratori, di privatizzazione del pubblico…
Il tutto scapito dei diritti più basilari di uno stato sociale quasi completamente assente nelle dinamiche di protezione attuali delle fasce più disagiate e deboli della popolazione: la recrudescenza pauperistica che si fa largo in ogni parte del Paese è allarmante. Quasi il 10% dell’intera popolazione è in uno stato di povertà assoluta, cronica, da cui – secondo i dati ISTAT – difficilmente si può uscire. Non basta il reddito di cittadinanza; non bastano i “ristori” oggi chiamati “sostegni“. Un cambiamento lessicale che segna una discontinuità soltanto a parole, per l’appunto, ma che non sovverte la rotta precedente, già molto accidentata ma almeno più condiscendente al compromesso tra bene comune e interesse esclusivamente privato.
Le dimissioni di Nicola Zingaretti esplodono nell’agorà della politica italiana in un momento eufemisticamente definibile come “critico“. Se si guarda alla stabilità democratica – senza voler creare alcun senso di colpa nel Presidente della Regione Lazio – si vanno ad aggiungere al già precarissimo quadro di sopravvivenza della medesima: laddove si nominano generali per organizzare i piani strategici sulle vaccinazioni, si sostituiscono capi della polizia, si danno nuove deleghe ai servizi segreti, creando una rete di protezione attorno al governo così da blindarlo e renderlo (purtroppo, per certi versi) pienamente operativo in ogni ambito della vita istituzionale e sociale del Paese.
La mossa di Zingaretti è eclatante, disarmante e mette la mordacchia per qualche giorno alla babele di canti e controcanti che hanno oggettivamente dato uno spettacolo poco edificante; se non altro li devia dallo scopo originario di lotta intestina tra le correnti. Il primo problema da risolvere per i democratici, ora è la stabilità del PD per poi tornare a giocare con gli equilibri della maggioranza di unità nazionale e gareggiare con le destre in quanto a rappresentanza degli interessi antisociali del mondo dell’impresa.
MARCO SFERINI
5 marzo 2021
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