Vi si può leggere una chiarissima disposizione ad esaudire due esigenze che, del resto, sono anche due esplicite volontà intrinseche alla incultura regressiva della destra. Stiamo parlando del ritiro del patrocinio regionale laziale da parte del presidente Rocca al Pride che si terrà sabato prossimo, 10 giugno.
Prima esigenza: “lavorare incontro al governo” e con il governo, uniformandosi in tutto e per tutto alla linea della limitazione dei diritti civili, dell’uguaglianza e della stigmatizzazione delle differenze in una classifica tra buone e cattive: laddove per buone si intendono quelle che portano acqua al mulino di una finzione liberale, maschera di un liberismo feroce; mentre per cattive ci si riferisce a quelle che realmente innescano un dibattito serio sulle tante discriminazioni ancora oggi esistenti tra persone dello stesso sesso, tra affetti, desideri, comportamenti, emozioni.
Seconda esigenza: quella di dare soddisfazione alle tante componenti dei Family day che hanno sostenuto, votato e fatto votare le forze più che altro meloniane e salviniane, in cui si riconosce il balduardo in difesa di una restaurazione cattolico-vandeana in tema di libertà femminile, di interruzione delle gravidanze, di gestione dei corpi, delle menti e della vita singola e collettiva, personale o familiare di ognuno di noi. La famiglia sacra contro la famiglia laica e, se vogliamo, un po’ costituzionale e repubblicana.
Ogni atto delle amministrazioni locali o di quelle regionali, come nel caso in questione, applica non solo le direttive dell’esecutivo di Giorgia Meloni, come è logico che sia, ma estende questa solerzia legale ad una forma ancora più sublimata di condiscendenza, praticamente del tutto acritica e anche un po’ acefala: sostenere un cambiamento culturale del Paese seguendo i princìpi del trittico storico dell’armamentario ideologico delle forze conservatrici, postfasciste, neonazi-onaliste e fintamente liberali.
Dio, patria e famiglia che, unificati in una sorta di trinitarietà altamente blasfema, sono il basamento tricolor fiammeggiante di una renovatio imperii dai tratti moderni, costruita su una mitologia aggiornata di una discendenza millenaria, di cui echeggiano i fasti soltanto nelle parate militari del 2 giugno, nelle ricorrenze delle varie armi al servizio di una Repubblica molto patita, poco sentita, molto poco vissuta.
L’ennesimo atto compiuto per tentare uno sfregio ai diritti civili (dopo avere in questi mesi ripetutamente vilipeso quelli sociali ed umani) non può avere che due effetti niente affatto rassicuranti. Il primo, rafforzare la convinzione di una parte dell’elettorato di destra che si sia puntato sulle forze giuste per mettere fine ad una trasformazione in senso progressista della società.
Il secondo, convincere indirettamente una parte di questo elettorato, multiforme e multiculturale, che forse, poi, in fin dei conti il tratto liberale che avevano voluto intravedere nella coalizione, puntando magari sul residuo forzitaliota, del tutto di complemento a mancati sovranisti divenuti, dalle piazze al governo, fedeli alleati della NATO e scendiletto di prima istanza della UE, ebbene quel tratto non è poi così distintivo e caratterizzante.
Prevalgono le più basse pulsioni di contrasto nei confronti di una cultura delle diversità e delle minoranze come parte di una comunità più ampia: quella di popolo, quella di un intero popolo. Con disegni di legge e con decreti si tenta di mettere all’angolo le critiche, si prova a fare della valorizzazione delle peculiarità un elemento negativo da uniformare e ridurre ad un unum così compattato e minuscolo da diventare insignificante.
Conta soltanto la preservazione di un tradizionalismo che tenga insieme le ragioni dei poteri che hanno sempre contraddistinto la tenuta un tempo “borghese” della società, oggi imprenditoriale e finanziaria.
Tutto quello che tende a sovvertire questo ordine, comprese le rivendicazioni delle persone LGBTQIA+ (fate un necessario sforzo di lettura dell’acronimo eversivo, per amore quanto meno di opposizione al governo e alla sua prepotente arroganza), contrasta con un disegno di mantenimento di un equilibrio anacronistico eppure così richiesto per trattenere altre spinte, per evitare una propagazione delle lotte.
Nel frenare i diritti civili, nel mettere i paletti all’aborto, nel provare a fare della RAI un megafono della maggioranza e del governo meloniano, nell’escludere la Corte dei Conti dal vaglio degli investimenti del PNRR verso la loro cosiddetta “messa a terra“, così come nel dirottare sempre più risorse verso le imprese lasciando la concertazione con il sindacato ai margini di un dialogo più che altro dai toni della mera cortesia istituzionale (a dire il vero molto poco cortese e molto poco istituzionale), nell’esaltazione del militarismo come cardine fondamentale della nazione e come principio di igiene quasi sociale e civile, sta una buona parte del progetto di trasformazione delle destre.
Un progetto di conversione culturale di massa. Un progetto che unisce un corporativismo lavorativo di nuovo modello ad una contestuale delegittimazione del sindacato ad operare in difesa dei più deboli e dei meno tutelati.
L’indebolimento degli altri importanti settori di tutela sociale della popolazione (scuola, sanità, sistema pensionistico) non fa che chiudere il cerchio di un ripensamento globale della nostra comunità, del Paese intero. In questo contesto il ritiro del patrocinio della Regione Lazio al Pride di Roma figura, come evidente, in perfetta continuità con il progetto di restaurazione di un egoismo di classe che si accompagna ad un suprematismo etnocentrico, ad una riclassificazione delle priorità tanto individuali quanto collettive.
Il disegno che prende forma è, del resto, non nuovo e oggi si può ripresentare a tinte ancora più marcate grazie alla forza elettorale delle destre che, tuttavia, va distinta e ben calibrata rispetto al consenso reale che l’esecutivo ha nel Paese intero. E’ da questo punto di vista che ogni Pride in Italia deve muovere e pensarsi: come manifestazione spontanea, istintiva e coinvolgente e non come qualcosa di esclusivo, di autoghettizzante. Non possiamo farci rinchiudere nel fortilizio delle nostre coscienze emancipate.
Dobbiamo espanderne il potenziale, dobbiamo irriverire di più, contravvenire alla decenza di una istituzionalizzazione malsana delle esistenze, delle vite di tutti i giorni, dei nostri desideri e delle nostre pulsioni. Non possiamo cedere di un millimetro davanti a questa presunzione di ragionevolezza di un insieme di forze politiche che hanno come portato culturale, civile e morale il superomismo, il maschilismo, la famiglia tradizionale, l’eterosessualità come unico modello possibile di sviluppo delle comunità, di filiazione, di amore, di condivisione dell’empatia.
La diseguaglianza che la maggioranza di governo protegge, in quanto elemento fondante del capitalismo liberista cui si ispira e dal quale è sostenuta, ha bisogno di tutte queste incostituzionali limitazioni delle libertà fondamentali di ogni cittadino per poter continuare ad essere l’asse della politica di Palazzo Chigi.
Senza questa certezza, rischiano di venire meno non solo le grandi convinzioni revisionistiche della Storia, dimostrate da presidenti dei rami del Parlamento, deputati, senatori, sottosegretari e dalla stessa Presidente del Consiglio dei Ministri, ma rischiano di accrescersi i divari con il mondo delle imprese, della finanza e della speculazione.
Il Paese è imbrigliato in una morsa fatta di destrutturazione della solidarietà e del mutualismo nazionale attraverso il progetto dell’autonomia differenziata, di revisione politica dei rapporti tra Stato e Regioni, tra queste e i Comuni, e ancora di una declinazione dei diritti sociali e civili secondo una tabella restrittiva che porta l’Italia nell’orbita dei paesi di Visegrad piuttosto che in quella del liberalismo occidentale.
L’onda di destra che pervade l’intera Europa e sconquassa il mondo non accenna a fermarsi. Si alimenta delle crisi sociali, di quelle nazionali e internazionali. Dai conflitti interni a quelli causati dal fronteggiamento dei poli imperialisti che si danno battaglia per una nuova dominazione globale. Non c’è grande spazio per delle idee e delle proposte progressiste in un contesto di questa natura.
Ma c’è l’opportunità sempre esigibile e sempre applicabile della resistenza a tutti i costi. Il Pride può essere una tra le tante resistenze, diventando al tempo stesso, per le strade della capitale e di tutte le altre cento città d’Italia, l’onda che disarma, che fa vergognare, che fa gridare allo scandalo, che fa ripensare tutto e tutti sotto mille luci diverse. Il ritiro del patrocinio da parte della Regione Lazio non ha niente a che vedere con il non appoggio ad una manifestazione che sponsorizzerebbe l’illegalità “universale” della fecondazione assistita.
I pretesti dovremmo ormai fiutarli lontano non uno ma mille miglia. Quell’universalità delittuosa che le destre si stanno inventando, e che è un abominio giuridico oltre che una smargiassata patetica agli occhi del mondo e delle nazioni un po più civili della nostra, dà il grado di elevatezza della spregiudicatezza con cui il governo intende agire nei confronti di quelli che consideravamo viatici di progressivo allargamento dei diritti, unitamente ai doveri da richiedere per evitare qualunque lesività morale e fisica di ognuna e ognuno di noi.
Non c’è limite al peggio e non c’è limite alla tolleranza del peggio da parte di una condiscendenza giornaliera che si trasforma in abitudinarietà e che finisce col considerare accettabile ciò che soltanto ventiquattro ore prima non lo era.
Il pericolo è e deve essere sotto gli occhi della parte più progressista del Paese, di quella pronta a frapporsi tra il governo e la Costituzione difendendo quest’ultima senza se e senza ma, evitando compromessi deboli e compromissioni forti. Il patrocinio al Pride dobbiamo darlo tutte e tutti quanti. Scendendo in piazza, sostenendo ogni azione che si rivolga contro il governo, contro tutte le amministrazioni di destra, contro una pretesa moralità e giustezza di posizioni che altro non sono se non discriminazioni, pregiudizi e sguardi indietro, molto indietro nel tempo…
MARCO SFERINI
6 giugno 2023
Foto di Alexander Grey da Pexels