Una lunga elencazione dei torti subiti, la rivendicazione orgogliosa di un percorso pacifico e democratico, la storia delle promesse disattese, delle umiliazioni e delle prevaricazioni.
A partire da queste premesse il presidente del governo catalano Puigdemont rivendica la legittimità dell’aspirazione della Catalogna all’indipendenza, che ribadisce essere l’obiettivo finale del suo mandato. Ma nessuno strappo storico si è consumato ieri sera a Barcellona, la temuta separazione dalla Spagna diventa un «processo» aperto.
Dialogo, trattativa, reciproca comprensione, senso di responsabilità, sono le parole che ricorrono in tutto il discorso del President.
La pressione aveva raggiunto il livello di guardia e doveva essere abbassata. Non è un esito sorprendente.
Dal primo di ottobre fino ad oggi numerosi segnali avevano indicato che i rapporti di forza non erano favorevoli, nemmeno nella stessa Catalogna, per procedere a una dichiarazione unilaterale di indipendenza. Molte crepe si erano aperte all’interno stesso del fronte indipendentista. Nell’attuale Europa, poi, le alternative secche, e traumatiche, come sarebbe stata la secessione di Barcellona, restano impraticabili. E, del resto, il referendum catalano non è stato affatto un «colpo di stato», come strilla la destra madrilena, ma neanche una rivoluzione, come forse avevano sognato le componenti più radicali del fronte indipendentista. Le politiche indipendentiste sottovalutano sempre i rapporti di classe e le contraddizioni che attraversano la società. E nutrono l’illusione che la possibilità di realizzare un determinato modello sociale sia una questione di scala, di omogeneità di lingua, di cultura, di storia, capaci di conciliare interessi contrapposti. Innumerevoli sono le smentite che la storia ha inflitto a questa convinzione.
Certo, oggi la questione della sovranità è ingarbugliata più che mai.
L’Europa che in linea teorica dovrebbe superare gli egoismi degli stati nazionali ne è in realtà prigioniera. E quando si pone come regola generale lo fa in ossequio agli interessi dei più forti, come recita il testamento politico-economico di Wolfgang Schauble che vorrebbe consegnare a Berlino e Parigi le chiavi del futuro «Fondo monetario europeo». A Bruxelles Puigdemont non poteva trovare una sponda e non l’ha trovata. L’Europa non è affatto quell’entità politica unitaria entro la quale l’autogoverno dei territori può trovare un adeguato spazio e un’occasione di sviluppo. I governi nazionali restano i suoi unici interlocutori.
Ma cosa succederà ora a Madrid? Contro l’ambiguità e il rinvio è difficile entrare in guerra. E la forzatura compiuta dal governo catalano e dai milioni di cittadini che si sono pronunciati per l’indipendenza hanno dato corpo all’insufficienza degli attuali livelli di autonomia e a una decisa insofferenza per le politiche del governo di Madrid.
Da Barcellona l’apertura di credito sembra potersi indirizzare soprattutto ai manifestanti «bianchi», i tanti scesi in piazza in questi giorni per il dialogo, a posizioni come quella espressa dalla sindaca della capitale catalana Ada Colau. Tutte realtà che il premier spagnolo Mariano Rajoy ha liquidato con sommo disprezzo. Ora, se andrà avanti su una linea repressiva e punitiva rifiutandosi di interloquire con i reprobi, la crisi potrebbe estendersi ai traballanti equilibri politici spagnoli. L’uomo è caparbio e il passo falso gli riesce più facile di quello indietro.
Ora i socialisti che non hanno più l’emergenza di una patria da salvare potrebbero pur prendere le distanze dall’arroganza del governo. Ma da quelle parti il coraggio non abbonda. Forse Puigdemont ha passato la palla, ma in una maniera piuttosto insidiosa.
MARCO BASCETTA
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