La lingua italiana è la prima vittima della campagna elettorale.
Mi trovo perfettamente d’accordo con questa affermazione del presidente dell’Accademia della Crusca.
Dovrebbe essere imbarazzante per molti l’assistere allo stillicidio di congiuntivi sbagliati, di frasi costruite senza un senso compiuto, di termini anglofoni usati a pieni polmoni per catturare maggiormente l’attenzione dei cittadini…
Invece non lo è.
Il poco amore per la lingua che parliamo è indice di un parallelo altrettanto poco amore per la cultura del nostro Paese, per la sua storia, per la sua letteratura che affonda le radici dall’XI secolo in avanti.
Sbagliare un congiuntivo può accadere anche al migliore degli accademici, ma perseverare negli errori e alimentare un uso della lingua italiana pieno di errori e di omissioni di parole che invece potrebbero essere utilizzate non denota una modernità imperante, una sorta di equilibrio tra l’ieri e l’oggi.
Mostra, invece, soltanto come poche siano le letture che si fanno ogni anno e come tutto ciò porti ad un utilizzo sempre più banale della nostra lingua, riducendo ad una “seccatura” l’osservazione delle regole grammaticali e la bellezza dello scrivere e del parlare correttamente.
La grammatica è una musica per le parole. Non conoscerla vuol dire stonare continuamente mentre ci si rivolge ad altri per iscritto o per dialogo.
Cantavano i partigiani sulle montagne…
“Chiediamo scusa se con frasi stolte,
abbiam storpiato pure il padre Dante.
La colpa è del bicchier che troppe volte
la bocca ci baciò tutto tremante…“.
Ecco, oggi nemmeno più il vino è un alibi per le sgrammaticature…
Speriamo che Dante si sia voltato e, soprattutto, si sia turato le orecchie…
(m.s.)
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