Basterebbe paragonare la composizione del salario oggi a quella del costo di una bolletta di gas o luce per rendersi conto dell’impatto dell’inflazione galoppante sulla vita degli italiani in questo inizio di 2022. Un paragone che non può rimanere isolato e che, proprio per questo, accresce l’inquietudine di chi già ben prima della pandemia faceva fatica ad arrivare a fine mese.
Negli scorsi mesi un po’ tutti hanno dovuto prendere atto della miseria delle retribuzioni nel nostro Paese, rispetto tanto alla media europea – ed al confronto con le economie dei singoli Stati dell’Unione – quanto al confronto con il resto del cosiddetto “mondo occidentale“.
A guardare il peggio, è ovvio, si ha sempre la certezza granitica di essere migliori. Ma se ci si volta verso l’espansione produttiva di Germania e Francia, si capisce anche perché stiano cercando alleati nella revisione del Patto di Stabilità e lo facciano pensando prima di tutto ad un protezionismo nazionale, del tutto interno ai rispettivi ambiti di riadattamento sociale alla (presumibile) fuoriuscita dallo stato di emergenza pandemico, ma con la prospettiva di escludere i veti dei paesi frugali e di quelli neonazi-onalisti di Visegrad dal più vasto blocco di interessi continentali.
Parigi, Berlino e anche Roma stanno provando a costruire un fronte comune che ostacoli tanto le tentazioni socialdemocratiche di Spagna e Portogallo, quanto quelle autarchicamente sovraniste di Ungheria e Polonia.
Il governo italiano, alla prova della triplice alleanza transalpina e mitteleuropea, deve fronteggiare un rialzo del costo della vita che mette in serio pericolo quella già fragile tenuta sociale che gran parte delle forze della maggioranza di unità nazionale vorrebbero sorreggere con correttivi di bilancio assolutamente insufficienti per fare da argine alla prepotente avanzata di una minaccia pauperista extra-pandemica.
Nel corso dell’anno in cui ha fino ad ora governato, Mario Draghi e i suoi ministri non hanno capovolto le precedenti politiche che hanno mirato esclusivamente a tutelare i privilegi privati a scapito del pubblico: fin dall’annuncio dell’arrivo del corposissimo pacchetto dei finanziamenti europei destinati al Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza, ogni dichiarazione del Presidente del Consiglio, dei ministri dell’economia, della tanto declamata “transizione ecologica” e delle infrastrutture, ha messo l’accento su uno sviluppo del Paese non legato all’incentivazione delle tutele dei lavoratori, bensì soltanto dell’impresa.
Era naturale, logico e perfettamente in linea che la visione liberista draghiana: da un banchiere riconosciuto dai più grandi guardiani della imperturbabilità del capitalismo come un plusvalore del medesimo, ci si poteva forse attendere che avrebbe mosso la barra del governo verso il potenziamento delle residualità dello stato-sociale?
Chi, a sinistra, si è anche minimamente illuso (o ha finto di illudersi) in questo senso, ha fatto soltanto della mera propaganda, facendo leva sul senso di responsabilità, sul momento critico e sulle tante debolezze strutturali di un Paese allo stremo nei suoi ceti e strati sociali più sfibrati, stanchi, ai margini di un mondo che viene spinto dalle destre a credere che l’altro povero, al di là del fiume, del mare o della piazza in cui si vive sia il vero nemico sociale, il vero avversario di classe.
La scarsa innovazione tecnologica, il ben povero impegno del tesoro italiano nella ricerca scientifica – prima fra tutte quella medico-sanitaria – ha collocato l’Italia al trentatreesimo posto nella classifica di quei paesi dove si è investito di più. Ci seguono soltanto la Spagna e la Romania.
Non sono soltanto i salari ad essere mortificati dalla riorganizzazione capitalistica dell’intra e post pandemia: la formazione dei lavoratori, le loro specializzazioni e le mancate competenze trasmesse attraverso corsi che dovrebbero tutelarne anzitutto la salute, sono tra i fattori primi che determinano tutta una serie di deficienze nel mondo dell’imprenditoria e che, alla fine, risultano come concause dello stillicidio di morti che non ha sosta, che ogni giorno fa aumentare il numero delle vittime.
Ed allora, dove sono davvero le stime ottimistiche della crescita italiana nel contesto di una Europa che vorrebbe mostrare i muscoli finanziari e borsistici agli altri poli capitalistici mondiali?
I fondi del PNRR non basteranno a riorganizzare socialmente un Paese che non intende investire nella riqualificazione della vita dei lavoratori: dentro e fuori il loro posto di lavoro. Dalla scrivania di un ufficio al cantiere edile, dalla fabbrica alle scuole, dal terzo settore ai lavori più usuranti, dall’agricoltura all’immenso mare magnum del precariato giovanile, a cominciare da quell’alternanza scuola-lavoro che non è meno innocente di tanti altri percorsi di sopravvivenza.
La rappresentazione onnipotente di un Mario Draghi capace solutore di quasi tutti i problemi della Repubblica e dei suoi cittadini è franata miseramente ben prima della magra figura fatta dal premier con le Quirinarie.
Sarà anche un grande banchiere, un geniale intuitivo macroeconomico, ma il fallimento politico del suo governo è sotto gli occhi ormai di tutti e di tanta parte della sua maggioranza. Solamente il rispetto internazionale di cui gode presso il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l’OCSE e le potenti centrali del credito e del capitale, gli assicurano quella autorevolezza che si è, a poco a poco, appannata nel momento in cui ha provato a trasformarsi in politico di lungo corso, in un capo dello Stato tutt’altro che super partes.
La crisi della democrazia è conclamata, sintomatologicamente riscontrabile nell’endemico logoramento delle forze politiche, separate dal proprio ruolo di rappresentanti ed interpreti della volontà popolare, accrocchiati in un Parlamento privato delle sue potenzialità dal protrarsi dell’emergenzialità pandemica e dall’abuso di potere del governo in merito. Tuttavia questa crisi non è stata sufficiente per consegnare a Draghi lo scettro di una onnipotenza mascherata da accettazione della forma democratica dello Stato, dalla piena osservanza della Costituzione.
Nel momento di massimo pericolo, quello di essere eterodiretti da una inusuale sommatoria di poteri, direttamente o indirettamente esercitati, i partiti hanno avuto non tanto la capacità, ma un sussulto di disperazione e hanno preferito mantenere uno status quo che garantisse anzitutto la trave di malcerto equilibrio su cui si reggono e che non intendono abbandonare.
L’interesse del Paese è un esercizio retorico di contorno: torna sempre utile per non essere pienamente sinceri, pur sapendo che la gente – nonostante l’alto grado analfabetismo politico e civile – non è così sprovveduta da cascarci ancora una volta. Se si lasceranno ingannare, sarà per credere che davvero questo politica liberista può fare qualcosa per il sociale, non vedendo altra chiave di volta che possa risolvere i tanti e gravi problemi di un Paese dove l’instabilità istituzionale fa il paio con quella di una popolazione in larga parte stremata, a cui si chiedono ancora sacrifici.
Tutte le istituzioni a guardia del grande capitale e dell’economia di mercato hanno suggerito, pretendendolo, che Draghi rimanesse a Palazzo Chigi, perché non esiste un’altra garanzia tecnica nella politica italiana di oggi che permetta loro di considerare lo Stivale al riparo da esplosive contraddizioni sociali, da ondate di scioperi e reclami di diritti fondamentali che non possono essere concessi: pena lo sbilanciamento della destinazione dei fondi europei, vincolati a progetti precisi e diametralmente opposti all’espansione dei diritti dei lavoratori.
Il costo della vita aumenterà nel corso di questo 2022, non solo quello ascrivibile alle bollette di luce e gas, ma quello che riguarderà le cure sanitarie, le spese scolastiche per ogni singola famiglia, la cura delle persone anziane: a parte i grandi profittatori, gli industriali che cercano un nume tutelare nella politica di oggi per le elezioni che verranno, tutti gli altri cittadini saranno coinvolti in questo processo di ridefinizione degli spazi del capitalismo nazionale.
Le minacce di guerra tra Est e Ovest sul fronte ucraino promettono una valanga di speculazioni e profitti per comparti industriali da riconvertire, per chi si frega le mani già ora in vista di un aumento del costo delle materie prime e vede i reciproci sanzionamenti tra gli Stati contendenti una occasione per rimettersi in gioco, per sfruttare qualunque situazione possibile.
Le diseguaglianze cresceranno e la pretesa dei governi liberisti di controllarne il potenziale esplosivo delle rivendicazioni sociali non diminuirà. La pandemia sembrava essere l’apice modernissimo di un punto di non ritorno: una svolta verso un ottimistica ripresa di fratellanza relazionale universale. Ci si è dimenticati troppo presto che, nonostante il Covid-19 abbia costretto la struttura economica a venire a patti con sé stessa e con il suo sviluppo globalmente omicida e suicida, non si è andati oltre la struttura stessa: il capitalismo c’era, c’è e ci sarà ancora.
La lotta politica e sociale per frenare l’aggressione liberista alle grandi masse precarie, al mondo moderno degli sfruttati, non può contare sulle buone intenzioni degli straricchi che promettono di autotassarsi al Forum di Davos per garantire una equità fiscale che manca praticamente ovunque. La forbice delle diseguaglianze si allarga e la risposta in chiave politica tarda a venire.
Mario Draghi e il suo governo, in assenza di una ripresa dell’opposizione di classe e di massa, possono ancora proporsi come i paladini della democrazia repubblicana e persino della sua declinazione egualitaria garantita dalla Costituzione. Il paradosso regna, la realtà subisce.
MARCO SFERINI
10 febbraio 2022
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